Il libro tibetano dei morti
- Autore: Padmasambhava
- Genere: Religioni
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Newton Compton
- Anno di pubblicazione: 2007
Namkai Norbu, prefatore del volume “Il libro tibetano dei morti” (Newton Compton, 2007), scrive che il Bar-do’ Thos-grol (Profonda dottrina dell’Autoliberazione mediante il riconoscimento delle divinità pacifiche e feroci della propria mente), di cui ha curato la traduzione, fa parte di una serie di testi composti da Padmasambhava, famoso maestro dell’Uddiyāna (luogo di origine di molti insegnamenti tantrici).
Per proteggerlo da circostanze non considerate propizie per l’insegnamento, l’aveva nascosto nei pressi della montagna Gampodar, vicino al fiume Yang-ze nell’VIII secolo dopo Cristo; poi, nel XIV secolo, venne scoperto dal maestro esoterico Karma gLing-pa, che, grazie a rivelazioni oniriche, riportò alla luce diversi scritti della tradizione buddhista.
Il titolo di “Libro tibetano dei morti” lo si deve, invece, alla traduzione di Kazi Dawa Samdup, curata alla fine del XIX secolo, e a quella successiva, del 1927, di W.H.Y. Evans-Wentz.
La chiave di lettura di questo libro, che secondo gli studiosi presenta raccordi trasversali con la religione mazdeo-zoroastriana, con il manicheismo e con il cristianesimo nestoriano, va individuata nella parola “Bardo”: di per sé significa
“stato intermedio”
e indica la condizione di un passaggio tra due stati: la sua durata, secondo la tradizione, è generalmente di quarantanove giorni, suddivisi in sette settimane: ogni sette giorni, nell’ora in cui si è morti, ritorna il ricordo della sensazione precisa del momento della morte. Se ne distinguono quattro tipi, entrambi accomunati da esperienze di visioni, dipendenti dalla propria condizione, dalla propria mente e accompagnate da vari colori. La colorazione è luce con precisi significati simbolici. Vi sono luci di Saggezza e ve ne sono altre da cui non bisogna farsi attrarre, essendo un ostacolo sulla via della realizzazione. Namkai Norbu scrive:
“Durante la vita, attraverso lo studio e la meditazione, si approfondisce la propria pratica, ci si sforza di padroneggiarla (…), in modo da poter ritrovare l’esperienza della meditazione fatta in vita nel momento di angoscia e di smarrimento della morte e giungere così alla liberazione (…). Nel momento della morte, che termina col cessare delle pulsazioni interne, la coscienza è più chiara non essendoci più l’ostacolo dei sensi fisici: sicché, il maestro o un fratello del “Vajra” legge la “Grande Liberazione nell’Udire” un “messaggio” di purificazione che l’individuo potrà mettere in pratica più facilmente quando appariranno le visioni del “Bardo” della “Dharmāta”, che significa Essenza delle cose così come sono”
manifestandosi lo Stato primordiale dell’individuo come ingresso nella Luce.
È attraverso l’udire che si attua il metodo di liberazione. La recitazione di istruzioni, che si susseguono giorno dopo giorno all’orecchio del morente o del defunto, fatta dai monaci seguendo un particolare rituale, hanno lo scopo di svegliare la coscienza e di liberare dall’esistenza tra la morte fisica e la rinascita per condurre alla definitiva liberazione dal “Karma” del ciclo delle rinascite. Può accadere che il Karma negativo prevalga con l’apparizione della luce fumosa e bianca dell’inferno, ma è l’invocazione con devozione che il defunto deve rivolgere al beato Vajrasattva, perché gli venga incontro nel momento della paura. Le istruzioni così riguardano come bisogna procedere per il superamento di ostacoli e di cattive predisposizioni.
Pochi cenni, questi, che spero possano orientare alla lettura di questo libro, tanto attuale in un tempo come il nostro che vuole ignorare la realtà della morte, esorcizzandola nel modo più grossolano. Così, almeno, a me pare.
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