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A Parigi. Da Hemingway a Cortázar
- Autore: Nicola Ravera Rafele
- Genere: Letteratura di viaggio
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2021
La prima cosa da fare è aprire l’ultima pagina del libro. No, niente anticipazioni, in questo caso. Solo una colonna sonora, la vera e propria playlist di A Parigi, quella che fin dalle prime note fa immergere in un’atmosfera capace di trasportare davvero Da Hemingway a Cortázar, come recita il sottotitolo del volume curato da Nicola Ravera Rafele per Giulio Perrone Editore (2021).
Ultima perla della collana "Passaggi di Dogana", in cui ci si sposta letteralmente in giro per il mondo, attraverso epoche e lenti letterarie molto lontane fra loro, A Parigi è fin da subito, e per scelta, una controproposta alla Ville Lumière cui siamo abituati. E così la copertina è di un chiaro giallo-verde limone, l’immagine scelta per rappresentare l’opera una tromba: c’è dunque la Parigi del jazz, la Parigi di una moda raffinata e pastello, e non la Parigi che si ciba dei suoi stessi stereotipi.
Nell’ottica di questi stessi intenti va sbirciato anche l’incipit, in cui la prima casa di cui parla l’autore non si affaccia sulla Torre Eiffel, o su chissà quale panoramico da cartolina: solo mercatini, odori forti, strade grigie. A stringerci la mano fin da subito è, insomma, una città pronta a spogliarsi e a rivestirsi davanti ai nostri occhi increduli e ammaliati, mentre ci dice: "Piacere, ci conosciamo?".
La risposta è più complessa di quanto si possa immaginare, e costringe a guardare il vero dolore della Senna, una targa ormai sbiadita, il mercatino della domenica sbucato da non si sa dove, tra un episodio della vita di Enrique Vila-Matas e una passeggiata al Marais, dopo essere usciti dall’ennesima libreria.
"Parigi è laggiù, bella e lontana", intonerà intanto Lucio Dalla, se abbiamo fatto partire la musica giusta, "sembra un pavone con le piume aperte; a un giallo acceso per divertimento nasce un rumore e strisciare di vento" – ed è in quel momento che capiremo di essere finiti anche noi nell’ingorgo descritto dal cantautore bolognese, stretti in una morsa che ci porta a girare e a stupirci e a commuoverci e ad attendere e a viaggiare a ritroso nel tempo, a ritroso fra i quartieri, a ritroso nelle parole.
Non ci sono taxi in grado di rallentare a un nostro cenno, né cartelloni pubblicitari o distrazioni di sorta: le stazioni della metro sembrano avvisarci che i treni andranno più lenti del solito, che bisogna andare a guardare le piazze nascere insieme al sole del mattino, che le bottiglie di champagne dobbiamo sorseggiarle noi, ma con dolcezza.
Adeguando il nostro passo a quello di scrittori e intellettuali, infatti, ciò che si manifesta meravigliosamente alla nostra vista, quasi come un miraggio nel deserto, è il volto di una città nuova, di un posto mai trovato nei taccuini o nelle riviste patinate. Niente che si possa sottolineare in una guida turistica, o trovare grazie a un’indicazione stradale: in ordine sparso le pagine si popolano piuttosto degli angoli squadrati dei palazzi, della luce flebile appoggiata sulla pietra, di ballerini e di bistrot.
Ci stordisce, quasi, ci trova totalmente impreparati. Dove si nasconde la metropoli tentacolare di Baudelaire, il mostro a più teste che pensavamo di avere addomesticato fra un verso e l’altro di poesie imparate a memoria tra i banchi di scuola? Scomparsa, ecco la verità. Sostituita da una riva sinistra del fiume in cui si ambienta l’ennesimo "gioco del mondo", il nostro, incorniciato da un cielo mutevole e da lunghe file per il botteghino dei cinema.
Non è però nostra nemica, si capisce, la Parigi ricostruita per balzi suggestivi e della memoria nel prezioso volume arrivato da poco in libreria. Al contrario, assomiglia a una sorella minore troppo spesso dimenticata, lasciata di canto mentre si portava a ballare la maggiore, quella truccata a festa, la più estroversa: ad accompagnarla in un sottile andirivieni di chiaroscuri è un’altra faccia della medaglia, con un tono struggente e i contorni sbiaditi di chi ama a stento sé stessa, figuriamoci il mondo circostante.
Una Parigi pudica e lasciata sola, trovata solo di rado sul ciglio della strada, appuntata tra le memorie meno telefonate di Francis S. Fitzgerald o di Franz Kafka, pronta a lasciarsi ritrarre dai nostri occhi fissi e sbalorditi, capace di abbandonarsi al nostro abbraccio e di farsi finalmente prendere, forse per la prima volta, e di accettare perfino che la portiamo con noi ovunque andremo, che la teniamo stretta nel palmo di una mano per accarezzarla come fosse un diamante allo stato grezzo.
Non ha nulla da proteggere, una città così, e aspetta solo di essere attraversata, riscoperta, e poi coperta di fiori e d’insulti per la sua bellezza inafferrabile a parole, per il suo mondo che inghiotte in un sol boccone tutti gli altri.
“Rimango un po’ a guardarmi la piazza. Cammino, mi seggo sulla pietra del marciapiede, mi rialzo, guardo, cammino ancora. Oh, potessi portarmela via questa piazzetta stanca, coi suoi caffè malandati e le sue vetrinette ancora piene di grazia. Ma soprattutto vorrei rubarmi, se fossi un ladro, le finestre bianche della facciata – della più antica chiesa di Parigi – e il fanale-gioiello, e questa nuvola che si fa chiara nel cielo, questi alberi senza nome e la pioggia che passa la sua lingua sulle foglie, il mormorio delle foglie in questo deserto, questa tranquillità, vuota storia. (p. 75)”
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