Abbasso la pedagogia
- Autore: Giampaolo Dossena
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2020
Il gioco è un’attività fondamentale. Lo è per i più piccoli, per i quali costituisce un impegno vero e proprio, lo è per gli adulti che preservano salutari spazi interiori di infantilità. C’è una prerogativa però, e riguarda la libertà di scelta: perché il gioco si carichi di connotati benefici, bisogna che scaturisca da un atto spontaneo. Un atto cioè sgombro da induzioni o imposizioni pedagogiche. Questa è la tesi (condivisibile) che muove Giampaolo Dossena nel suo saggio dal titolo, non a caso provocatorio, Abbasso la pedagogia (Marietti, 2020), librino di un centinaio di pagine, ma pregno di contenuti storici e altri meta-significanti sulla materia dei giochi.
Per diretta ammissione dell’autore, il saggio scaturisce da una “scoperta archeologica”: un antico negozio di cartoleria anni Trenta, sotto il Castello di Udine. Il negozio, gestito da Ida Sello, è una miniera di tesori: giocattoli d’epoca, strumenti didattici, cancelleria, retaggi di un tempo in cui il gioco dell’oca, le tombole, le biglie e i soldatini, costituivano un comune universo infantile, alla luce dell’oggi più a misura di bimbo. Dossena – giornalista, scrittore, e tra gli esperti più autorevoli di giochi e giocattoli (è morto nel 2009) – spende due terzi del libro a illustrarne i connotati storici e, perché no, le significanze simbolico-psicologiche, mantenendo vivo sottotraccia il cruccio iniziale: bocce, birilli, cubi, puzzle e quant’altro sono davvero l’espressione più fedele di come giocavamo? O piuttosto raccontano di come ci era concesso giocare, al netto del filtro imposto dalle diverse agenzie educative? Nei confronti di quest’ultime l’autore non lesina critiche, senza peli sulla lingua:
“Ma come si fa a scegliere di essere insegnanti o Secondini, Guardie Carcerarie. Agenti di Custodia o di Polizia Penitenziaria? Io non impazzisco nel pormi queste domande perché generosamente ci è già impazzito Nietzsche […]. Ci lasciavano giocare. Il gioco, se non viene imposto, è tollerato, concesso […]. Si può dire anche ottriato. Perché il gioco è trasgressivo. Il gioco è quella ‘pallastrada’ inventata da Stefano Benni: un gioco primitivo, primordiale, ‘nemico dell’obbedienza’, del catechismo, dell’applicazione scolare e del totocalcio’. Selvatico e segretissimo, si svolge clandestinamente, cercando di sfuggire ai grandi nemici: preti, giornalisti, Tv”.
Così si legge tra le pagine 31 e 33. Più avanti (pagina 41, Il gioco dell’oca) la trattazione abbandona i toni del pamphlet, diventa più distesa, non meno interessante, forse anche suo malgrado sfiorata dalla nostalgia. Un catalogo di ricordi ludici (la tombola, le costruzioni, i pennini, le armi giocattolo) affrontati speculativamente e affrancati dai rigidi dettami del pedagogismo di ogni tipo e natura. Con, in ultimo, uno sguardo significativo anche allo status consumistico-merceologico attuale, che ha coinvolto anche l’industria del giocattolo:
“Inventare un gioco è una gran bella cosa. Aver voglia di farlo giocare agli altri è un pensiero allegro, generoso. Far divertire gli altri, quando ci siamo divertiti noi, è meglio che amare il prossimo, la patria, il progresso. Volerlo vedere pubblicato, pubblicizzato, pagato e premiato è un altro paio di maniche […]. La Ravensburger riceve ogni anno molte centinaia di Progetti. Proposte, Prototipi, ma, primo, la Ravensburger produce solo 10-15 giochi nuovi all’anno, secondo i giochi Ravensburger, pur essendo […] tra i migliori al mondo, durano poco. Il 50 per cento delle novità di un anno va fuori catalogo l’anno dopo. Di quel che resta, il 10 per cento dura in catalogo qualche altro anno. Poi basta. Poi niente. Le cose vanno così, queste sono le leggi del mercato”. (pagg. 148-149)
E pensare che gli esemplari più antichi del gioco dell’oca (per rifarmi a un bestseller ante-consumismo), in Europa, risalgono al Seicento…
Abbasso la pedagogia
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