Autoritratto con pianoforte russo
- Autore: Wolf Wondratschek
- Genere: Musica
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Voland
- Anno di pubblicazione: 2021
Al di là dei luoghi comuni, bisognerebbe davvero prendere atto di questo assioma: il tempo scombina le pagine della vita, e lo fa quasi sempre senza riguardo. Ci vogliono spalle larghe, e una memoria allenata alla fatica, per non cedere alla sua malagrazia. Nel sontuoso Autoritratto con pianoforte russo di Wolf Wondratschek (Voland, 2021, trad. C. Vezzaro), per il poco che conta e che gli rimane, un vecchio pianista deve vedersela col tempo e il corollario dei ricordi che fanno da apripista alla morte. Autoesiliatosi a Vienna dopo aver mandato a monte la carriera perché gli applausi gli erano divenuti insopportabili, riassume la sua vita a uno scrittore austriaco: una catena di giorni, pagine aperte e chiuse tra il nitore di un passato speso tra letture, musica, donne, e un grande amore; e un presente popolato invece da fantasmi: persone, cose, Russia, talento perduti. Il musicista si chiama Savorin, lo scrittore rimarrà sconosciuto, pedissequo estensore del romanzo di una vita che ha saputo fare i conti con la vita.
“Interno caffè. Tutti i tavolini occupati. Tutte le barzellette raccontate. Tutti i giornali letti. Stranieri e locali. I camerieri ballano. L’aria, un sigaro che brucia. Al mio tavolo un russo, un pianista in gioventù, una celebrità dimenticata. Si è messo l’animo in pace. Mosca, Londra, Vienna. Tutte le distanze riassunte nel rigo di una poesia, tutte le sale fuse in un mistero. Ci ho provato, a far luce a mente lucida, ma ho fallito. Alla fine ci si ricorda più delle stanze d’albergo che dei concerti. Una stretta di mano troppo forte. Belle donne che bussano per poi scusarsi, era un errore. Una valigia con il lucchetto rosso. La Torre Eiffel nella nebbia, per due giorni non si è visto niente. E naturalmente si sapeva: l’arte non può farci niente se non può niente”.
Comincia così, con questo attacco formalmente luminoso, già indicativo del tenore del romanzo, il rendiconto sommario — e per questo paradigmatico — dei prezzi da saldare alla ricerca della perfezione e di se stessi.
“Su cosa può far conto ormai un uomo la cui vita è crollata, su quale facoltà, su quale tratto del suo carattere? Cos’è che non potrebbe togliergli nemmeno la sua, di morte? […] Negli anni selvaggi a Mosca, lui e i suoi amici avevano voluto affrontare la lotta come degli eroi, e avevano trovato una soluzione: nel pensiero radicale, in azioni risolute, quali che fossero le circostanze, quasi temessero la punizione del Cielo. La cialtroneria morale non se la sarebbero perdonata facilmente, né gliel’avrebbero perdonata le loro mogli […] Tutto, in lui, lo spingeva in avanti. Nulla sembrava poterlo fermare, non un errore, non le intemperie, non Goethe, che pareva avesse incontrato proprio lì. E’ impressionante come offra la fronte alla tempesta, il cappotto sollevato dal vento. Be’, aveva detto lei, meglio così che vivere a New York”. (pp. 73-74)
Il romanzo si può leggere come un mistery. Un mistery dell’anima che Wolf Wondratschek fa risuonare attraverso una partitura narrativa stra-ordinaria. Wondratschek ha il dono della prosa limpida e musicale, e quello – altrettanto pregevole – della densità tematica. Con la scusa di un’apparente biografia, Autoritratto con pianoforte russo contempla e si misura, cioè, coi grandi della musica e i classici della letteratura, insinuando i temi-cardine di una filosofia mai scevra dal confronto con l’esistenza.
Nella fedele traduzione di Cristina Vezzaro, un romanzo da assaporare e metabolizzare con la parsimonia che si deve alle opere importanti.
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