Campi d’ostinato amore
- Autore: Umberto Piersanti
- Categoria: Poesia
- Casa editrice: La nave di Teseo
- Anno di pubblicazione: 2020
Alla soglia degli ottant’anni, Umberto Piersanti torna ad accoglierci nel giardino della sua poesia con una silloge variegata e complessa da cui prorompe limpida ed evocativa la voce potente del poeta.
La naturalezza del versificare e l’autenticità della propria vocazione poetica caratterizzano il fiorire dei testi, un concatenarsi di epifanie multisensoriali, in cui il ritmo delle immagini è scandito da un verso breve che conferisce leggerezza e predilige uno sviluppo verticale del testo, tra salti e volute del tempo, come se stessimo percorrendo insieme al poeta i sentieri sulle colline dell’amato paesaggio marchigiano. Assistiamo a una frammentazione dell’endecasillabo classico, tipico della produzione centrale piersantiana, funzionale a un maggiore coinvolgimento e impeto, quasi sincopato, che scandisce il passo di viandante, sui cammini del tempo e dei luoghi.
Dal monte Carpegna all’altopiano delle Cesane, dalla campagna urbinate alla casa dell’infanzia “giù nel fosso”, dove “lì il tempo è eterno / come l’orizzonte / sconfinato lo intravedi / dietro ai greppi”, Piersanti ci dimostra ancora una volta quanto conosca la propria terra attraverso cui ama condurre il lettore, stringendo questo sodalizio inscindibile con la natura che, di fatto, è un patto con la vita stessa.
La silloge è incentrata su tre tematiche fondamentali: natura, tempo e memoria. Si sviluppa un’armonia di intenti e una tensione verso la capacità eternatrice della poesia che fa vibrare emozioni contenute, ma non per questo meno intense, le ombre del ricordo, la nostalgia composta, l’esigenza del momento contemplativo, il godimento appagante dell’elemento naturale, l’immaginario di un mondo contadino che non esiste più e va a trascendere nel mito.
Il respiro della natura diventa respiro dell’uomo, accompagnandoci in questo lungo iter di episodi esistenziali del poeta, vergati con grande forza rievocatrice, squarciando il velo del ricordo, ponendosi come remoto rapsodo di uno straordinario canto consolatorio, dove occhi annebbiati e ginocchia indebolite sottolineano l’accettazione del limite umano, della fragilità umana e antieroica.
Piersanti si espone e non addolcisce la memoria, rievoca il dolore, la guerra, i lutti, la malattia e l’armoniosa presenza di una pienezza affettiva, di quell’amore potente e tenace, definito “ostinato” nel titolo della silloge che richiama la denominazione di una lirica dedicata al figlio Jacopo, affetto da una forma grave di autismo.
Patologia che consiste in un’agnosia degli stati intenzionali e che comporta una profonda difficoltà di interazione e di comunicazione, oltre a tutto un corollario di comportamenti stereotipati e di compromissione cognitiva, a vario livello. Un disturbo pervasivo dello sviluppo che permette all’autore di affrontare anche il tema della solitudine, dell’isolamento di questo ragazzo, ormai adulto “per un instante spezza / il sortilegio / che il tuo giorno assedia / e ossessiona”, a cui il padre anziano devoto dedica, con un amore infinito e una tenerezza composta e potentissima, alcuni dei versi più intensi e profondi:
“Jacopo del riso / e dello sconforto, / sei nella vita / quella svolta improvvisa / che non t’aspetti, / la tragica bellezza / che i tuoi giorni inchioda / al suo percorso”.
Le sezioni del libro sono dedicate alle diverse età della vita, dai cupi anni della seconda guerra mondiale in cui si colloca anche la nascita del poeta, descrivendo la suggestione di quell’evento:
“Non sai se la madre / s’appresta a consolarti / dell’esser nato / o se la vita saluti / e bevi a sorsi lunghi / dopo quel limbo caldo, / ma vicino, / così vicino / al Vuoto che tutto / precede”.
All’età limpida della infanzia:
“Oltre quello stradino / dentro la casa / ridotta a un muro incerto / come quei volti sacri / ormai nell’aria / trascolorati e infissi, / quell’età immortale / tra le valli / continua a risonarti dentro il sangue”.
E, ancora, “l’infanzia è la stagione / più tenace / e ogni altra / offusca / e quasi oscura”, “per ogni generazione / c’è un’età immortale, / la mia è stata allora”. Dagli anni dell’illusione d’onnipotenza adolescenziale “c’è stato un tempo / in cui ci credemmo / immortali, / alti, sull’Appennino / ventoso”, “ma prima che fa buio / bisogna andare, / ognuno prende da solo / la sua strada”, fino alle due brevi sezioni dedicate al tempo sospeso del presente, dell’alienante isolamento, da una parte nella dimensione patologica del figlio e dall’altra nella realtà di coatta chiusura pandemica, trattata anch’essa in maniera completamente anticonvenzionale:
“È questo tempo tutto / fuori stagione, / un tempo che ti rapina / i giorni e l’ore / e tu rimpiangi i suoni / che detesti, / i trapani nei muri, / l’acque scure / il cielo polveroso / i giorni inconsapevoli, / felici / d’un’altra primavera / che porti dentro, / dentro nel sangue”.
Scendendo nell’inconscio personale, collettivo e storico, l’io lirico fa vibrare le corde del proprio passato e, pur avendo la consapevolezza che “per chi lo inizia / felice è il cammino”, cerchiamo di comprendere e di accettare con dolcezza ostinata la vita e il sentiero intrapreso da ognuno di noi:
“Quante pelli hai cambiato / che non si vedono / da quei giorni remoti / così vicini / che se allunghi la mano / quasi li sfiori / come i volti / di chi è sceso / oltre i valloni? / e ricerchi ostinato / se qualcosa / dietro ogni metamorfosi / permane”.
Anche se a volte ci sentiremo spaesati come “da forestiero (che) cammini / dentro il Presente”.
Piersanti ci conduce alla scoperta del suo preciso locus amoenus, una patria poetica che non viene né idealizzata né resa astrattamente assimilabile a un altro paesaggio collinare italiano. La sua perizia botanica e la sua tendenza, quasi ossessiva, a definire i dettagli del proprio territorio nascondono un intento ben più profondo, rispetto al mero nozionismo o all’intento localistico/campanilistico, in realtà pongono il focus sull’esigenza dell’osservazione e sul piacere dello sguardo che, attraverso la nominazione precisa degli elementi permette di afferrarne l’essenza stessa, in piena congruenza tra significante e significato. Vengono così rievocati fiori e alberi antichi, come la vegelia, il favagello, e lo scòtano, denominato “albero della nebbia”, tipico arbusto delle colline urbinati e del Carso che vanta il primato di non essere mai stato menzionato da nessun poeta, prima d’ora.
Vi è chiaramente una eco pascoliana, una tensione classica estrinsecata in una dimensione lirica e memoriale che diventa anche corale, descrivendo un mondo contadino che non esiste più, filtrato dalla memoria e attingente più dai racconti del bisnonno Madìo, qui definito “l’Antico” per assurgerlo a ruolo di mitico cantore, che a un folklore leggendario. Sono storie di vita vissuta, di ricordi, tratteggiati attraverso un pathos trattenuto e un’assenza di ammiccante sentimentalismo.
I riferimenti e le citazioni mantengono un’aderenza alla poesia classica del secondo Ottocento e del primo Novecento, con rimandi montaliani e leopardiani, con un nitore onesto e diretto che richiama Saba, pur non mancando anche citazioni carducciane di cui condivide “l’avere addosso” la lingua parlata e allusioni a Baudelaire, Rilke e Pasternak.
Si tratta di una poesia multisensoriale, dove elementi visivi, olfattivi, gustativi e uditivi si mescolano tra loro per rendere ancora più tangibili i ricordi. Da sottolineare, in tal senso, un tratto di ricercata raffinatezza musicale che riporta alla memoria una canzone del 1943, “La strada nel bosco”, eseguita da Gino Bechi e molto amata dalla madre di Piersanti che così scrive “questo sentiero / perso dentro il bosco / come quell’altro / degli anni di guerra / nella canzone / amata da tua madre”.
Nulla è lasciato al caso, nemmeno i periodi dell’anno che al poeta risultano più cari ed evocativi, simbolici del perpetuarsi di nuovi inizi, ovvero la primavera e il mese di settembre, senza tralasciare l’elemento costitutivo del male, spesso allegoricamente simboleggiato da “serpi delle rocce” e “spiriti che sibilano”.
Piersanti è poeta di natura e di memoria ma totalmente antiretorico, non scivola nella deriva né bucolica né idilliaca, non presenta rimpianti idealistici o ideologici, bensì è uomo consapevole del furto degli anni, dell’amara coscienza di un ineluttabile scorrere del tempo.
È interessante sottolineare come questa raccolta sia permeata da una posata accettazione nei confronti della vita, dell’età che avanza portando con sé le parafisiologiche fragilità connesse (“acciacchi, una parola / adatta ai vecchi, / e non troppo cruda / colma di comprensione, / quasi piana”). Esplode la necessità di guardare la vita da un altopiano di contemplazione, dove assaporare il piacere della sosta e della lentezza, dove calibrare le giuste “distanziazioni”, come da precetto luziano.
L’aspirazione a trovare una pace interiore e una calma di cuore, attraverso la maturità e la trasfigurazione della memoria e del sentimento rendono questa silloge cara a ognuno di noi.
Scorrendo i versi, sentiremo la tentazione di identificarci, di richiamare alla mente i nostri luoghi del cuore e le nostre radici, di perdonarci e di comprendere come la giusta distanza dagli eventi della nostra stessa vita sia uno strumento necessario ed efficace per accettare il dolore e l’insensatezza, cullandoci sulle note proteiformi di questo afflato universale eternatore che accomuna tutti nel medesimo abbraccio.
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