In tempi in cui i politici hanno toccato il fondo nella considerazione dei cittadini e la politica sembra avere abbandonato il compito di trattare questioni che migliorino la convivenza civile per occuparsi sempre di più di spartizione di potere, occuparsi di un politico come Confucio (551 a.C. - 479 a.C.) sembrerebbe anacronistico.
Eppure se non vogliamo rinunciare all’idea che fare politica sia un’esigenza necessaria della socialità, dell’umana convivenza, che tende a procurare il bene comune e la completa promozione della persona umana, non possiamo non accostarci a quei maestri che di essa fecero il faro della loro vita.
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Vito Mancuso nell’opera I quattro maestri racconta il politico Confucio che, rinunciando a considerare il raggiungimento del bene comune come derivante da comandamenti divini rivelati o riducendolo a meri interessi comuni come accade per lo più nelle nostre società secolarizzate, cercò di capire empiricamente in che cosa esso concretamente consistesse. Egli guarda al passato, alla tradizione, cercando di cogliere criteri e precetti di comportamenti, ma lo fa non in modo dogmatico, come accade al confucianesimo successivo.
Egli riteneva che nel passato le cose andassero meglio e per risolvere i problemi presenti ne riproponeva i modelli politici etici e culturali. Lo sguardo da scienziato non lo dispensò dall’interpretare anche in modo flessibile il presente, in quanto pensava che l’esercizio della politica richiedesse, oltre a indispensabili doti morali, un dovere quasi sacro: lo studio. Affermazione che oggi, quando la cultura per un politico sembra essere diventata una qualità secondaria, appare quasi sconveniente.
Il primato dello studio emerge in quella che Mancuso chiama “Analecta” (da “anà” = sopra e lego = raccolta, materiale vario), l’opera che raccoglie i suoi detti o scene, semplici descrizioni che lo riguardano e che confermano l’amore di Confucio per lo studio, considerato motivo di letizia e che pretendeva anche dai suoi discepoli.
Il personaggio storico
Le notizie che si hanno su Confucio possiamo trarle dalla raccolta di più di cinquecento scene o dagli stessi “quattro libri” (La grande scienza, La costante pratica del giusto mezzo, Mencio, La pietà filiale), testi canonici del confucianesimo che non hanno la stessa sistematicità dei dialoghi di Platone su Socrate né dei discorsi didattici del Buddha, né delle narrazioni evangeliche. Fonti per lo più disordinate, asistematiche, “un po’ come la vita”.
Il nome Confucio è un’invenzione occidentale che deriva dalla latinizzazione dell’originale nome cinese che ne fecero i missionari gesuiti che significa “Maestro Kong”, titolo e cognome. Il nome proprio era Qiu, che significa “Monticello” e secondo due interpretazioni si riferisce sia alla montagna sacra dove la giovane madre andò a pregare per rimanere incinta dal vecchio marito sia dal fatto che nacque con una grossa protuberanza sul capo.
Del suo operato politico ne parlò Karl Jaspers nei Grandi filosofi (1957-1964), come di quando evocò la sua opposizione a un pericoloso populista la cui azione politica ricorda Hitler e Mussolini, ma anche politici recenti. Il suo buon governo dava frutti concreti, ma proprio il suo successo ne causò la rovina giungendo a farlo allontanare dalla corte di Lu, perché questi aveva accettato in dono tre donne, una sorta di “escort”, che paralizzarono il centro del potere e che turbarono l’intransigenza morale di Confucio.
Così all’età di cinquantaquattro anni per 14 anni peregrinò tra i vari principati e regni della Cina dimostrando che non cercava il potere a ogni costo. Giunto a 68 anni decise di tornare in patria dove trascorse gli ultimi anni, consultato di tanto in tanto dal sovrano, continuando l’insegnamento e dedicandosi agli antichi testi della tradizione. Morì con la sensazione di aver fallito come politico perché “non era stato capace di cambiare le cose del mondo”.
La sua tomba, l’unico tra i quattro maestri ad averne una, si trova a Qufu, lo stesso luogo della sua nascita.
Nascita leggendaria
Anche alla nascita di Confucio così come quella di Buddha e di Gesù vennero attribuiti elementi leggendari: sogni premonitori, draghi azzurri che scendono dal cielo e si preparano ad accogliere un re senza corona, l’assenza o quasi del padre naturale, il concepimento sovrannaturale, tutto quanto preparava l’avvento di un credo religioso.
“Ne risultò un’ideologia religiosa che si rivelò il classico ‘instrumentum regni’ che compattò per oltre venti secoli la società intorno all’ortodossia e fu l’anima del Celeste Impero.”
Sarà con l’avvento di Mao e l’arrivo al potere dei comunisti che il confucianesimo fu considerato un retaggio del passato e Confucio fu combattuto ferocemente come servo dei signori feudali. Bisognerà attendere la fine del ventesimo secolo col crollo dell’unione sovietica per assistere a una ripresa di interesse per il confucianesimo fino a raggiungere l’apice soprattutto oggi con l’attuale presidente Xi Jinping.
Il libro di Mancuso procede analizzando l’influsso che Confucio ebbe in occidente, le traduzioni dei testi confuciani a opera prima dei Gesuiti poi degli illuministi spinti dal desiderio di vedere rinnovata la spiritualità slegata dalla storia biblica e radicata nell’armonia relazionale della natura, alimentando quella che in quegli anni era la polemica verso il cristianesimo e il fervore verso tutto quello che arrivava dalla Cina e dall’India.
La personalità del maestro si evince dalla sua consapevolezza di mettere in pratica, pur non conoscendolo, il detto delfico “conosci te stesso”, il suo rifiuto dell’ascetismo per applicarsi allo studio che trovava più proficuo e il suo amore per la musica che lo toccava nel profondo e che lui stesso praticò. A differenza di Buddha e di Gesù non lodò mai la povertà ma la sobrietà, si faceva pagare ma non mirava alla ricchezza.
Come Socrate non pensò mai per un momento a rinunciare al mondo, questo mondo; era un uomo generoso con un gran senso di umanità. Fu un vero maestro: si legge nella sua biografia che ebbe tremila discepoli. Naturalmente non dobbiamo pensare a lezioni cattedratiche, ma a una condivisione del tempo, parlando, a volte tacendo, altre volte esercitandosi in attività più varie. Egli insegnava la sua stessa esistenza creando una vera e propria comunità tra maestro e discepoli con legami a volte molto intensi.
Negli Analecta compaiono passi che ritroveremo nella Torah e nel Discorso alla montagna di Gesù, la cosiddetta “regola d’oro” che possiamo riassumere con l’esortazione a non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te.
Interessante poi risulta il suo concetto di etica che lo porta a distinguere l’uomo nobile dall’uomo ordinario.
Non condivide l’affermazione che tutti gli uomini sono uguali. È un dato di fatto che vi sono esseri umani per i quali i valori etici e spirituali sono decisivi e ve ne sono altri che vi rimangono del tutto insensibili o che ne sono addirittura infastiditi. Confucio, da vero conservatore qual era, amava e favoriva la differenza tra gli esseri umani.
Al discepolo che gli chiedeva quale sarebbe stato il primo provvedimento se gli fosse stato affidato il governo, Confucio rispose “La rettificazione dei nomi”. Al discepolo deluso Confucio spiegò che il linguaggio come tutto, procede dalla mente, per cui rettificare il linguaggio comporta rettificare la mente e di conseguenza l’azione. Il nesso linguaggio-mente-azione è la dimostrazione del fondamentale rilievo politico del linguaggio.
Ben diversamente da come si comportano i politici quando sono soliti promettere ai cittadini quello che non possono mantenere.
Se in Confucio si cerca la religione così come viene comunemente intesa (liturgie, credenze, pratiche, devozioni a divinità trascendenti) si è destinati a non trovarla se non per vaghi accenni. La vera divinità per Confucio era il mondo umano strutturato come società, quindi la vera liturgia erano i riti della società civile e della politica.
La narrazione è arricchita da numerose citazioni tratte dai testi canonici a illustrazione dei commenti dell’autore che così immerge il lettore nello spirito del tempo.
Con l’opera I quattro maestri Vito Mancuso rende esplicito quello che Karl Jaspers definisce “fase assiale”:
“Epoca tra il VI e V secolo a.C., che è stata al centro di uno dei periodi più significativi della storia umana poiché ha segnato il punto centrale di quel rinnovamento spirituale dell’intera ecumene (Grecia, Magna Grecia, Israele-Palestina, Iran, India e Cina) che si è svolto tra l’VIII e il II sec. A.C. Per Jaspers è lì che si trova la più netta linea di demarcazione della vicenda umana; è lì che sorse l’uomo così come lo conosciamo”.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il Confucio di Vito Mancuso nel libro I quattro maestri
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