Domenikon 1943. Quando ad ammazzare sono gli italiani
- Autore: Vincenzo Sinapi
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Mursia
- Anno di pubblicazione: 2021
Italiani, brava gente? Rastrellamenti, fucilazioni, incendi, distruzioni, requisizioni: perfino il Comando tedesco protestò per le violenze indiscriminate sui civili, durante l’occupazione della Grecia (aprile 1941-settembre 1943). I nostri si macchiarono di crimini di guerra mai raccontati e dei quali nessuno ha mai risposto o pagato. Una pagina oscura nella storia militare nazionale: il giornalista Vincenzo Sinapi lo denuncia nel saggio per Mursia editore Domenikon 1943. Quando ad ammazzare sono gli italiani, in prima edizione a febbraio (250 pagine), settantotto anni dopo le stragi del 16 e 17 febbraio 1943, in Tessaglia.
I centocinquanta civili uccisi con la stessa disumana crudeltà delle rappresaglie tedesche, se non peggio, sono una parte soltanto delle vittime delle ritorsioni ordinate dai Comandi italiani per pacificare un territorio occupato, nel quale le forze partigiane andavano crescendo per numero e audacia, sostenute in maggiore o minore misura dalla popolazione locale. Nove italiani caduti in un’imboscata, centocinquanta greci fucilati, più di dieci per uno, una contabilità quasi doppia di quella pesantissima dei nazisti nelle Fosse Ardeatine, a Roma, dopo l’attentato in via Rasella che avverrà di lì a poco più di un mese.
Caporedattore aggiunto dell’Agenzia ANSA, lo spoletino Vincenzo Sinapi lavora a Roma, ha seguito la cronaca giudiziaria per un decennio e dalla fine del ‘900 scrive di sicurezza e difesa, occupandosi anche delle missioni di peacekeeping delle Forze Armate italiane all’estero. È perciò abituato ad atteggiamenti militari professionali più disciplinati di quelli ordinati ai nostri occupanti. Esplicite disposizioni del gen. Carlo Geloso, comandante in Grecia, esigevano reazioni severe e immediate, senza stare a distinguere tra ribelli e civili: tutti responsabili direttamente o indirettamente degli atti di resistenza o guerriglia. Tutti al muro.
Il 16 febbraio 1943, il villaggio di Domenikon venne dato alle fiamme solo perché distante mezzo chilometro dal luogo dell’agguato di una banda di andartes dell’Elas (i partigiani greci), a una colonna di camion che trasportava viveri per le guarnigioni italiane in Tessaglia. A eccezione di alcuni collaborazionisti, tutta la popolazione “attiva” venne trucidata: tutti i maschi dai 14 agli 80 anni. Non c’era proporzione tra la morte di nove camicie nere a opera di resistenti e il massacro di quegli innocenti, si voleva annientare alla base il movimento partigiano, facendo il vuoto col terrore nel territorio attorno.
I rapporti ufficiali italiani parlano genericamente di misure repressive. Negli ordini e nei rapporti ricorre molto poco il termine “rappresaglia”. E nessuno dei responsabili è stato chiamato a rispondere, per decenni, dopo la guerra. Si è taciuto per il buon nome nazionale e per ragioni di opportunità politica nel quadro dell’Alleanza Atlantica. Solo nel 2008 il procuratore militare De Paolis - lo stesso che ha istruito i processi molto postumi ai criminali di guerra tedeschi - ha preso in mano le carte affidando una relazione peritale alla storica Lidia Santarelli. Tuttavia, si è arrivati al nulla di fatto: nel febbraio 2019 è stata disposta l’archiviazione per undici indagati italiani. Nove deceduti, due non individuati.
L’episodio. A metà mattina del 16, una colonna autocarrata di camicie nere, aggregata alla divisione Pinerolo, venne bloccata a 500 metri dall’abitato di Domenikon, dal fuoco intenso di armi leggere da una collina. Gli italiani subirono perdite, ma si attestarono sulla strada, respinsero gli assalitori e alla ritirata dei ribelli effettuarono un rastrellamento immediato, eliminando sul posto ogni uomo trovato in zona e sulle alture, partigiano o contadino, armato o disarmato.
Nel primo pomeriggio, rinforzi grigioverdi raggiunsero il villaggio. Tutti gli abitanti vennero fatti uscire dalle case e gli uomini divisi dalle donne.
Domenikon cominciò a bruciare, dalla periferia verso il centro, tranne la chiesa. Operazioni concluse alle 19:30. Alle 23, l’ufficiale di collegamento comunicò al Comando:
“Abitato completamente distrutto. Donne, vecchi e bambini sgomberati su Amari. Perdite accertate: nostri 9 morti e 14 feriti, banditi 25 morti. In corso misure di repressione verso abitanti della zona”.
Alle 3:30 del 17 febbraio, la colonna mosse per il rientro. Nove ore per mettere a ferro e fuoco e per sterminare la popolazione maschile. Impossibile accertare il bilancio delle vittime. Le fonti oscillano, quelle del Regio Esercito tra 137-154, quelle greche tra 152 e 177. Grande confusione nei riscontri: secondo la storica Santarelli, non è dato stabilire il numero preciso degli uccisi, l’identità, l’età, perfino chiarire se e in quale misura le donne siano state risparmiate.
Le iniziative di “normalizzazione” delle nostre truppe proseguirono fino alla fine di marzo, con la giustizia sommaria di un numero elevato ma imprecisato di greci, senza distinzioni tra ribelli, fiancheggiatori e civili. Per ordini superiori, non si faceva riferimento a “ostaggi”. Un lungo elenco di uccisi, contabilizzati solo dai Greci, perché i documenti italiani risultano volutamente reticenti o lacunosi.
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