Gli Arditi sul Grappa e a Susegana. Storia del VI reparto d’assalto
- Autore: Filippo Cappellano, Basilio Di Martino, Paolo Gaspari
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2021
Gli Arditi nella Grande Guerra, truppe scelte, fanti d’assalto particolarmente motivati, ben addestrati e armati, ma è bene prendere le distanze dal vociare superficiale che li ha descritti come una masnada di bruti. Erano diciannovenni coraggiosi, comandati da ufficiali di complemento coetanei o poco più adulti. Lo mette in risalto Paolo Gaspari, autore con il gen. Di Martino e l’ufficiale esperto di corpi scelti Filippo Cappellano, del quarto dei sette volumi che ha in progetto da editore sulla storia dei reparti d’assalto nel primo conflitto mondiale. Pubblicato nell’estate 2021 dalle edizioni udinesi, nel formato album della collana “La storia raccontata e illustrata”, segue con i suoi testi efficaci e le tante fotografie e mappe in bianconero i tre già usciti: La battaglia dei capitani. Udine 28 ottobre 1917 (2014), I combattimenti degli Arditi sul Piave nel giugno 1918 (2018) e La Champagne italiana. Arditi e Curzio Malaparte in Francia nel 1918 (2019).
Attraverso le azioni di singoli protagonisti e giovani ufficiali, il lavoro mette a fuoco l’operato del VI reparto d’assalto, così denominato dal maggio 1918, quando il Comando Supremo decise di allineare le speciali formazioni delle Fiamme Nere ai Corpi d’Armata di appartenenza. In origine, era nato come VIII reparto d’assalto della II Armata, nell’estate 1917, nel con campo d’addestramento di Sdricca, sul fiume Natisone, a un chilometro dall’abitato di Manzano (Udine). Tutti di fanteria e volontari i candidati, poco meno che ventenni, contadini spinti anche dalla prospettiva della paga maggiorata da spedire a casa.
Erano agli ordini del maggiore Giuseppe Bassi, un combattente dotato di una visione innovativa. Sperimentava tattiche inedite di attacco alle posizioni trincerate nemiche, con l’uso di pugnali, bombe a mano offensive e pistole mitragliatrici portatili. Durissime esercitazioni con armi e munizioni vere mettevano in conto morti e feriti. Si provava a condurre assalti col fitto lancio di petardi Thévenot (micidiali nel raggio di 15 metri), da eseguire correndo verso il bersaglio. Oltre a individuare così gli idonei per sangue freddo, equilibrio e coraggio, si potevano scartare e rispedire ai reparti di provenienza gli indecisi e gli inadatti, perché indisciplinati e facinorosi.
Coppie di indivisibili, pronti a sostenersi reciprocamente, costituivano l’unità di base e potevano formare squadre e plotoni più numerosi, espandendosi secondo le esigenze del momento e del terreno in formazioni sempre flessibili, “a frattura prestabilita” suggeriscono gli autori.
Si rendeva concreto un concetto dell’Alto Comando, al momento ancora minoritario rispetto all’attacco frontale a ondate di massa. Azioni minori di trincea attuavano la “piccola guerra”, specie nelle pause tra le grandi operazioni offensive. Era concepita per mantenere alta la tensione in linea e conservare la superiorità morale sul nemico. Si trattava di condurre pattugliamenti aggressivi, aprire brecce nei reticolati, minacciare con colpi di mano le posizioni avverse, per attrarvi rinforzi sotto il tiro delle nostre artiglierie e soprattutto per catturare prigionieri da interrogare. Gli avversari operavano in modo analogo, ma i nostri arditi vi si applicarono con intensità: i dati tra l’estate e l’autunno 1918 segnalano un netto vantaggio per gli italiani, uno a dieci: 4124 prigionieri austro-ungheresi contro 331. E questo, dopo che l’impiego del VI reparto sul Grappa aveva contribuito a difendere il massiccio dalle offensive austriache verso la pianura.
Molto largo l’impiego degli arditi sulla linea del Piave e nella battaglia oltre il fiume, in particolare a Susegana, nelle fasi più difficili dell’offensiva finale italiana su Vittorio Veneto, il 29 ottobre 1918.
Un contributo originale proviene in questo lavoro dalle considerazioni di Paolo Gaspari sulla componente umana dell’arditismo. L’editore-ricercatore contesta l’assimilazione al fascismo, convalidata finora da non pochi storici. D’altra parte, il regime mussoliniano ha massicciamente saccheggiato la tradizione delle Fiamme Nere, mediandone espressioni e simboli. Ha fatto propri la foggia delle uniformi, il fez nero, i gagliardetti, il motto “Me ne frego”, la canzone “Giovinezza”, gli atteggiamenti spacconi, risoluti.
Come considerare proto-fascisti i tanti ex arditi che nel dopoguerra non aderirono affatto al fascismo? Non andarono a ingrossarne le squadracce e in molti casi si impegnarono come avversari politici. Qualcuno diventò un famoso oppositore, come Ettore Viola, il mitico capitano di Ca’ Tasson, leader dell’Associazione Nazionale Combattenti e anche ardente aventiniano.
Né sono stati in nessun modo fascisti lo scrittore e drammaturgo Leonida Repaci, il pittore futurista Ottone Rosai, l’ufficiale di carriera Angelo Giuseppe Zancanaro. Due decenni dopo, guidò la resistenza militare nel Bellunese e cadde per mano nazifascista, protagonista della guerra di Liberazione, come il deputato Ponzio di San Sebastiano.
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