I lunghi fucili. Ricordi della guerra di Russia
- Autore: Cristoforo Moscioni Negri
- Genere: Storie vere
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: il Mulino
- Anno di pubblicazione: 2021
Il tenente del sergente nella neve. Dopo il successo nel 1953 del libro dell’alpino scrittore Mario Rigoni Stern, il suo ex superiore diretto, Cristoforo Moscioni Negri, dette alle stampe nel 1956 un diario asciutto e critico della spedizione nella steppa russa. Dopo diverse edizioni precedenti, il Mulino ha riproposto a settembre I lunghi fucili. Ricordi della guerra di Russia (2021, 152 pagine). Era ed è un altro documento eccezionale di una campagna militare evitabile, pretesa politicamente da Mussolini nel 1941-42, ma inviata nel fango e nel gelo russo senza equipaggiamenti all’altezza del sacrificio richiesto alle truppe.
Di famiglia agiata e nonno garibaldino deputato radicale, Moscioni è stato ufficiale alpino, comandante partigiano e scrittore. Nato a Pesaro nel 1918 e morto a San Marino nel 2000, laureato in giurisprudenza e in scienze politiche, per tre volte campione di sci, venne richiamato dalla divisione Tridentina nel 1942. Sottotenente di complemento nel Battaglione Vestone, 6° Reggimento, 55a Compagnia, trovò nel reparto il sergente maggiore asiaghese Rigoni Stern, il futuro scrittore reduce che nel capolavoro Il sergente nella neve scolpisce in pochi tratti il carattere dell’ufficiale al comando del suo caposaldo sul fronte russo. Il tenente “era come noi”, il più grande complimento che un sottoposto possa rivolgere a un superiore. “Riposava lavorando, come i muli”. Scavava camminamenti insieme ai soldati e di notte partecipava alle corvè per piantare reticolati davanti alle posizioni, rafforzare le postazioni, raccogliere materiali utili di risulta tra le macerie delle retrovie.
Moscioni Negri venne ferito due volte nel corso della tragica ritirata a piedi delle divisioni alpine, circondate dai russi a gennaio del 1943. Dopo una lunga degenza nell’ospedale militare di Rimini, rientrò al reparto, sul Brennero, poco prima dell’armistizio con gli alleati e dello sbandamento delle forze armate l’8 settembre 1943. Scampato ai rastrellamenti tedeschi, rientrò a Pesaro e aderì alla Resistenza, col nome di battaglia Vittorio, al comando del terzo battaglione Gramsci della divisione partigiana Garibaldi Pesaro. Passata la linea del fronte, si aggregò a un reparto britannico di Gurkha nepalesi e prese parte alla battaglia di Tavoleto, meritando il ringraziamento del Duca di Edimburgo, oltre a due Croci al merito di guerra, per la campagna di Russia e la lotta partigiana. Dopo le ostilità, avrebbe voluto intraprendere la carriera diplomatica, ma si trovò a considerarla moralmente incompatibile con l’esperienza bellica. Si dette a studi di medicina, specializzandosi in odontoiatria ed esercitando ad Ancona.
Raccolse i ricordi della resistenza nel libro Linea Gotica, pubblicato per la prima volta nel 1980 e riedito nel 2006, sempre da il Mulino. Ma la scelta di elaborare la guerra in Russia e l’anabasi dal Don si fece fortissima all’uscita del libro di Rigoni, nel 1953, mentre tornavano in Italia gli ultimi prigionieri italiani nei campi sovietici. L’ex comandante di plotone era stato tra i lettori del manoscritto del suo sergent magiur, puntigliosamente commentato. A sua volta aveva sottoposto a Mario un dattiloscritto senza titolo con i suoi ricordi. Incominciava con le parole:
“Ukranska Builowo è un villaggio sul Don, ma non so bene dove, perché la steppa è grande come il mare...”
Per la prima volta, lo stesso Rigoni Stern apprendeva il nome dell’abitato che avevano difeso sul medio Don. A nord c’era Voronesh, duramente contesa da mesi tra russi e tedeschi, a sud il fronte si allungava verso Stalingrado, dove si combatteva con ferocia e senza risparmio di forze. Nell’estate del 1955 presentò a Giulia Einaudi la prima parte delle memorie del suo tenente, che uscirono per quella casa editrice, con la nota editoriale di Italo Calvino.
Il titolo evoca i Carcano mod. 91, esempio dell’inadeguatezza dell’Armata italiana in Russia. Arma individuale in dotazione all’Esercito dal 1891 al 1945, già in mano ai fanti ad Adua e nella Grande Guerra: fucili ingombranti, che non sparavano nel gelo russo, occorreva tenerli sotto una coperta, a evitare che ghiacciassero. Scarse le munizioni, insufficienti per un fuoco prolungato e le bombe a mano facevano più rumore che danno, sempre ammesso che detonassero nella neve. Invece, abbondavano inutilmente carte e circolari, sul dettaglio più superfluo.
Un piccolo caposaldo, presidiato da tre squadre di fucilieri, una di mitraglieri e una di mortai da 45mm. Uno dei tanti sulla debole linea investita in forze dai russi, tesi verso la vittoria finale e che gli alpini difendevano sfiduciati, isolati e consapevoli della tragedia che li attendeva. Combattevano senza esitare per respingere le ondate all’assalto e lo hanno fatto ancora anche sulla strada verso occidente, nello spazio immenso che li divideva dalle linee tedesche e ancora più da casa.
Moscioni Negri era l’ufficiale che comandava il caposaldo. Aveva finito l’università prima di vestire la divisa e si riteneva maturo.
“Ma fu soltanto in quelle ore aspre e disperate, trascorse nel villaggio sul fiume che dagli alpini imparai quanto non è scritto sui libri e nacque in me il principio di una nuova vita. Ed è con un sentimento profondo di riconoscenza e di affetto per i miei uomini che provo a rievocare quel periodo: è alla loro memoria che dedico queste pagine”.
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