I ragazzi del ’99. Le storie dell’ultima coorte nel 1918
- Autore: Fortunato Minniti
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2023
Volti imberbi, quasi infantili, di soldatini orgogliosi nell’esibire l’uniforme grigioverde o blu scuro appena indossata. Sguardo serio, compreso del ruolo da adulto assunto da un giorno all’altro dopo la “chiamata”. Li osserviamo tra le foto in posa nelle otto facciate d’immagini in bicromia al centro del volume I ragazzi del ’99. Le storie dell’ultima coorte del 1918, edito la scorsa estate da Gaspari nella collana Storica (agosto 2023, 256 pagine), lavoro più recente del prof. Fortunato Minniti, saggista e già ordinario di storia contemporanea nell’Università Roma Tre.
I maschi diciottenni di oggi sono ragazzoni ben nutriti, ancora tra i banchi di scuola; portano i libri negli zainetti in spalla; flirtano con le ragazze; amano il ballo e lo sballo; bevono mica poco; guidano moto e auto con spavalderia.
Certo, si tratta di una generalizzazione grossolana, ma sempre generalizzando non si va lontano dal considerare: “Generazione Z” responsabilità zero nei confronti della società civile. I coetanei di poco più di un secolo prima indossavano anche loro uno zaino a tracolla, pesante, affardellato; imbracciavano armi non per gioco ma per obbligo e uccidevano, per non essere uccisi. Erano i chiamati alle armi nati nel 1899, addestrati in fretta e spediti al fronte a tappare le falle di Caporetto.
Un libro corale - il titolo insiste giustamente sul paragone con la coorte romana - che passa in rassegna lo schieramento di tutti quei ragazzini in un’ideale piazza d’armi, soffermandosi a far parlare di sé e della propria esperienza, attraverso testimonianze e scritti, numerosi di quei trecentomila giovanissimi ma motivatissimi soldati, sottufficiali e ufficiali.
In termini numerici, i coscritti della classe di leva 1899 superavano in Italia le 400mila unità. Il primo contingente (i nati nei primi quattro mesi dell’anno) venne chiamato anticipatamente nei primi del 1917 e 80mila affluirono nei depositi reggimentali entro il 31 agosto. I vuoti nell’Esercito, dopo la rotta di Caporetto dell’ottobre-novembre successivo e l’arretramento sulla linea Altipiani-Grappa-Piave, portarono nei ranghi altri 250mila ’99 nella primavera 1918, 210mila dei quali destinati a rincalzare i reparti di fanteria decimati. C’era poco da ragionare, il momento era grave per il Paese: vennero inviati in prima linea.
Come si avvicinassero al battesimo del fuoco è immaginabile: “nutrendo una comprensibile preoccupazione per la loro sorte”. Uno di loro testimonia che arrivando sul Piave ebbe il tempo di provare insieme sorpresa e paura per i rumori e le luci dei combattimenti. Camminando, “non si pensava alla pioggia e alla stanchezza, si pensava indove si andava a finire la nostra vita così giovani”.
A tre chilometri dagli avversari, l’intero reparto non disponeva di elmetti e maschere antigas. Erano spaventati dagli aeroplani austriaci, quando passavano a bassa quota si sdraiavano a terra, schiacciandosi, cercando di non respirare, per la paura d’essere visti. Le granate dei cannoni nemici trasformarono quei ragazzi in combattenti, una volta schierati in linea, coinvolti nella difesa. Era la prima grande prova di carattere della loro vita. Quelle salve di artiglieria restarono “il pericolo numero uno”, invasivo, penetrante, tanto si trattasse dell’onnipresente tiro a shrapnel (pallette di piombo spinte verso il basso dalle esplosioni qualche metro in alto) o del temutissimo schianto dei 305 mm, a tiro curvo, capaci di arrivare ovunque. Nessun posto era sicuro, neanche nelle retrovie.
Cadevano anche loro, naturalmente. Tra i ’99, le perdite in azione, per ferite o malattie furono 2.814 nel 1917, 1.518 nel solo terribile dicembre. Sei mesi dopo, nel giugno 1918, la battaglia del Solstizio pretese 2.144 morti in combattimento o per ferite. La preparazione e lo sviluppo dell’offensiva finale di Vittorio Veneto costarono altri 1.573 caduti. Nel complesso, 17mila morti della leva 1899, “pochi” a fronte dei 26mila del 1898 o i 30mila del 1897 censiti da uno studio non datato e non firmato, conservato nell’Archivio storico dello Stato Maggiore Esercito, che a sua volta calcola 17.075 caduti fino al 1920.
L’Italia è sempre stata grata ai ragazzi del ’99, volontari e coscritti di leva, inviati al fronte diciottenni. Eppure, non si pensi che l’accoglienza dei militari sul posto fosse tanto generosa nei loro riguardi.
Lamenta un artigliere, Sandro Andreassi, che giunti sul Grappa i ’99, tra cui molti studenti universitari, erano stati accolti dagli anziani con provocazioni e sfottò a non finire, li consideravano gli interventisti, quelli che avevano voluto la guerra. Anche il comandante della batteria, un avvocato toscano, aveva dimostrato antipatia, assegnandoli ai servizi più gravosi e pericolosi.
Un altro ufficiale si era rivolto a Sergio come a un giovane privo dell’esatta cognizione di cosa significasse soffrire al fronte. Studente? Dunque di quelli che hanno gridato “viva la guerra” e magari contento di farla. L’aveva mandato subito a ispezionare i piccoli posti e il giorno dopo in pattuglia.
A molti giovani volontari, veri o presunti, questa presa di distanza costava sofferenza, alcuni finirono addirittura in manicomio, ammalati perché oggetto di disprezzo, incolpati delle sofferenze collettive dei compagni, isolati, privati dei gesti di solidarietà e del sostegno decisivi per reggere quell’esperienza estrema.
Tanto valeva per i volontari, ma non erano risparmiati probabilmente neanche quei i giovani che pur obbligati dalla cartolina di precetto manifestano uno spontaneo desiderio di affrontare la prova, pronti al sacrificio.
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