Anche per questo caso è invalsa l’inveterata regola che quel che accade in Sicilia è cosa d’altro pianeta.
È opinione diffusa che, a seguito dello sbarco in Sicilia delle truppe anglo-americane, la ritirata dei soldati tedeschi sia avvenuta senza alcuna rappresaglia o rivolta popolare; le cose stanno diversamente e si deve al racconto di Sciascia I tedeschi in Sicilia la falsificazione di tale convinzione. Si legge nell’opera Il fuoco del mare (Adelphi, 2010), che raccoglie racconti dispersi (1947-1975).
I tedeschi in Sicilia di Leonardo Sciascia: analisi e commento
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Potremmo dirlo, la reinvenzione letteraria di testimonianze e incomincia con l’indicazione di un tempo aperto all’accoglienza:
Nel 1943, sul finire dell’inverno, un ufficiale inglese fuggito dal campo di prigionia di Castelvetrano, si presentò a dei contadini che lavoravano nella campagna di Regalpetra e chiese di essere accompagnato alla più vicina caserma dei carabinieri. Aveva la faccia screpolata dal gelo, perché per giorni aveva vagato sull’altipiano (nelle carte denominato di Regalpetra), in quella stagione spazzato da affilati venti, e aveva dormito all’adiaccio o in pagliai abbandonati.
Il personaggio può uscire dalla precarietà grazie all’accettazione della gente del luogo e dalle donne, pronte ad accoglierlo come un figlio, pensando ai loro uomini nei campi africani. C’è un rapporto immediato fra lui e la vitalità povera, lontanissima da ogni ostilità verso il nemico.
La descrizione, incisivamente elegante, mostra il prigioniero attorno a incontri ospitali nella caserma dei carabinieri:
E fu una specie di processione da presepio, tutte portando qualcosa che servisse a nutrire e a riscaldare il prigioniero. Il maresciallo, che era un buon uomo, lasciava fare: sul tavolaccio della camera di sicurezza fece portare materassi e lenzuola; e di giorno lasciava che l’inglese se ne stesse all’aria, davanti alla caserma. E la gente veniva a vedere l’inglese che se ne stava al sole, a chiacchierare coi carabinieri e col bambino, figlio del maresciallo che gli si era affezionato.
Muove da questo episodio l’itinerario per poi evidenziare l’ostilità contro i tedeschi. Dal confronto può così rilevarsi una irrimediabile distanza, resa esplicita da una decisa affermazione:
Non so fino a che punto i tedeschi si facessero illusioni sulla solidarietà dei siciliani: ma dovettero presto accorgersi che quel popolo silenzioso e paziente, tutto dedito a tessere intrallazzi, non era “fascista fino alle ossa” come Mussolini aveva proclamato.
Amante delle citazioni, Sciascia utilizza i versi con cui Vittorio Sereni, soldato sul fronte di Trapani, in quella campagna così viva e così straziante d’abbandoni fa vedere la “solitudine guerriera” dei tedeschi in quel 10 luglio 1943.
Collegata ai precedenti intarsi narrativi da un sottile filo che fa ritrovare il succo del discorso, si passa alla vicenda centrale del narrato, svolto da Sciascia come un seguito di avventure e di esperienze.
Lo schema adottato, non essendo lineare, si svolge secondo una strategia a incastro: la scelta di qualsiasi occasione è capace di fornire nuove notizie al raccontare fino a raggiungere il centro del labirinto.
Lo scrittore ricava in tal modo il massimo frutto attraverso una sapiente arte combinatoria. A lui non interessa la linearità della costruzione, anzi ne rifugge e le sequenze, descritte secondo una sceneggiatura e un montaggio filmico, hanno un’icasticità straordinaria per il fatto di essere vere: è il caso della rappresaglia avvenuta a Castiglione di Sicilia.
Le immagini sono nette, precise e la visività è sguardo, memoria, evocazione come se la descrizione, distante dalla compassione e dalla pietà, sia stata vissuta dal narrante con una coinvolgente complicità:
Il 12 agosto 1943 un reparto tedesco, preceduto da un carro armato (secondo alcuni testimoni era invece un’autoblindata), entrava a Castiglione di Sicilia tra le sette e le otto del mattino […] La gente stava affacciata ai balconi: in pigiama, in canottiera, in vestaglia; qualcuno era già in istrada, per aprire bottega o per comprare quelle pochissime cose che in quei giorni si potevano comprare. Nessun gesto di ostilità o di irrisione verso quei soldati in ritirata. Ma di colpo i tedeschi si disposero a ventaglio intorno all’automezzo e cominciarono a sparare. Due, tre minuti di fuoco: e prima che gli abitanti di Castiglione si rendessero conto di quel che stava accadendo, sedici persone erano già morte, altre ferite. I tedeschi si precipitarono nelle case, violentemente ne portarono via gli uomini: così come li trovarono. Una donna, che aveva avuto il marito ammazzato dai colpi tirati dalla strada, fu buttata giù dal balcone: restò sul selciato con una gamba spezzata...
Lo scrittore aveva sentito raccontare la vicenda da coloro che la vissero e, ascoltandoli, aveva avuto l’impressione che non erano ancora usciti dallo stupore, dall’attonito dolore, dall’improvvisa tragedia. In seguito si troverà in altra micro-narrazione la ragione dell’eccidio: la notte precedente l’eccidio, i tedeschi avevano subito un furto, a detta di un castiglionese, da parte dei cesarotani (abitanti del vicino paese di Cesarò); per cui al mattino s’era svolta la vendetta su Castiglione.
A questo punto il coltissimo narrante fa riferimento ai “mimi” dell’amato Francesco Lanza, cui dedicherà un apposito saggio nell’opera La corda pazza (Einaudi, 1970): apparsi fra il 1923 e il 1927, compongono un affresco della società contadina e paesana e sono brevi racconti anche di quattro o cinque righe: frammenti in cui l’arguzia contadina diventa satira tagliente.
Facendo uso dell’associazione memoriale e letteraria, ne riporta uno a cui è legato un modo di essere o di atteggiarsi, traducendolo appena dal dialetto, dopo aver sentito a Catania la storia del cesarotano che, trovato un cannone abbandonato e le casse dei proiettili accanto, si era messo a sparare qualche colpo alla cieca. Tutto ha una logica conseguenziale nel racconto: attuato per accostamento di episodi, vive proprio di ramificazioni che si costituiscono come rappresentazione della Sicilia del 1943 e fanno in modo significativo il ritratto di eventi storici rimasti nell’ombra.
La scrittura, mai con toni duri e aspri, è sempre vigile ed è la rigorosità della cronaca a essere il filtro della rappresentazione:
Per la ritirata sui contrafforti etnei, i tedeschi avevano bisogno di muli. E un tentativo di requisizione o di razzia fu causa dell’insorgere di un altro paese etneo, Mascalucia.
La conclusione viene affidata a un commento che opportunamente chiude la raggiera delle situazioni:
… è doveroso per me ricordare, in questo 1965 in cui si celebra la vittoria della Resistenza, che la prima strage tedesca in territorio italiano, così come la prima insurrezione armata contro l’esercito nazista, si sono avute in questa parte dell’Italia, e mentre ancora i tedeschi erano alleati.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “I tedeschi in Sicilia” di Leonardo Sciascia: analisi e commento del racconto
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