Il cibo dei morti
- Autore: Dimitri Bortnikov
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Tunué
- Anno di pubblicazione: 2021
"Quando mio padre ha telefonato, mi stavo masturbando".
Parte così Il cibo dei morti di Dimitri Bortnikov, lo stesso romanzo che nell’edizione italiana (tradotta da Daniele Petruccioli e pubblicata da Tunué ad aprile 2021) ha in copertina un putto che fa pipì per terra. Parte provocatorio, con una frase che è già tutta una storia, e che nel suo incipit suggerisce un assaggio della rapidità, della sperimentazione e dello scompaginamento di cui poi sono disseminate, con una parsimonia nemmeno troppo eccessiva, le 180 pagine a seguire.
Dopodiché, non ci pensa due volte a prendere il largo. Fa un giro lunghissimo per spiegare le cose come stanno, perché prima spiega le cose come sembrano, come vengono percepite, come qualcuno ha l’impressione che siano diventate per qualcun altro. Il tutto con una lingua singhiozzata, ibrida, che come in un laboratorio prende in prestito dal francese certe componenti essenziali e poi le nega, le trasfigura, le contamina con tessere di un puzzle totalmente diverso.
È così che affiora qua e là un’eco russa, per esempio, pronta a riemergere tanto dal vissuto dell’autore quanto dai suoi riferimenti culturali, ed è così che viene allo scoperto anche una certa eco europea, per certi versi letteraria e per altri versi allusiva. L’immaginario che ne consegue, e in cui nuotano sia il protagonista sia chi legge la sua storia, si fa dunque meticcio, composito. Non c’è modo di tenerlo fra le mani senza graffiarsi, spigolato com’è. Né sarebbe possibile fissarlo a debita distanza, perché si allargherebbe e si restringerebbe in modo schizofrenico, rendendo beffardo ogni ragionato tentativo di osservazione.
L’unica strada percorribile, insomma, sembra essere quella della penetrazione – e stavolta non da intendersi in ottica sessuale – o magari sì, considerato il taglio del romanzo: se ne penetra la lingua, tenendo il volume tra due mani e seguendone le lunghe strisce che lasciano i capoversi, e poi si aspetta che a essere penetrato sia il proprio bisogno di comprensione, la propria voglia di stabilità. Rocambolesco com’è, infatti, Il cibo dei morti riesce a stento ad avanzare in successione (crono)logica: si interrompe, si attarda, si aggroviglia. E ancora si nega, si deride, si rilassa. Attraversa le generazioni e i fili del telefono, i camion e le ninfee, le morti e le cimici, il tutto fra una citazione di Donizetti e un incendio in Estremo Oriente.
Che cosa potrà mai raccontare dell’esistenza, un delirio simile? Come raccapezzarsi dopo avere guardato negli occhi l’inferno e il piacere di una donna? Probabilmente la risposta va individuata nel caos stesso, nel proliferare di biglie impazzite di una partita con la vita rimasta senza regole da masticare, nel ricordo di un figlio che potrebbe non essere più di un bambino nato morto.
Lo suggerisce il protagonista, un soldato sbandato e un uomo vestito di dolore, e a loro volta lo confermano certi puntini di sospensione, alcune frasi chiuse dopo un respiro ancora incompleto. Di quell’uomo che palpita fra carta e inchiostro, dopotutto, non ci si può fidare fino in fondo – o magari è dal suo mondo che ci si dovrebbe guardare, con i suoi vortici di perbenismo da evitare a qualunque costo. Su un concetto simile ci ammonisce perfino il traduttore in apertura: la lingua di Bortnikov
"è forse una lingua-mamka, una lingua mammina, una lingua anzianotta, una lingua che ti fa da balia ma che potrebbe rivelarsi invece una prostituta lesbica sadomaso che vuole rubarti la ragazza. Bisogna fare attenzione, perché non si sa mai".
E bisogna fare altrettanta attenzione alla lordura, all’assenza di scrupoli, a un mondo pronto a lasciarsi divorare dai paradossi della ferocia.
Per sopravvivergli, di conseguenza, non è sufficiente conoscere e descrivere, memorizzare e decidere. Serve riuscire a orientarsi, che è un po’ come andare alla ricerca disperata di un senso – direzionale o filosofico, a questo punto poco importa. Serve correre lungo il campo minato della sofferenza, cercando intanto di non implodere. Serve rispondere al telefono, chiudere gli occhi davanti ai miraggi, chiamare ogni donna per nome, e finalmente raccogliersi per poi svuotarsi da qualche parte – da una parte qualsiasi, purché il viaggio stia per concludersi.
Lo spiega bene Il cibo dei morti, o forse lo mostra e basta. Lo costruisce fra le sue interruzioni, o forse nei suoi salti concettuali che partono da una guerra e arrivano a un’isola in grado di sussurrare (o viceversa?). Anzi, a dirla tutta Il cibo dei morti non lo lascia nemmeno intravedere: lo fa immaginare per suggestioni, per strazi, per sprazzi. E serve alla fine un grande sforzo emotivo per ricomporre i tasselli e rintracciare un filo d’oro in una pozza di fango, salvo poi accorgersi che l’obiettivo dell’impresa non c’entrava niente con l’aurea materia, e che aveva piuttosto il suo cuore pulsante nella materia in fusione in cui si era tanto scavato.
Il Cibo dei Morti
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il cibo dei morti
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