Il falcone e altri racconti
- Autore: Giorgio Scerbanenco
- Genere: Raccolte di racconti
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Garzanti
- Anno di pubblicazione: 2016
Non sono storie nuove, non è una raccolta inedita “Il falcone e altri racconti”, ma nei sette proposti nell’antologia si possono apprezzare la maestria, la malinconia e la Milano ruvida, grigia e vera di Giorgio Scerbanenco. Il volume è una proposta recente delle edizioni Garzanti (collana La biblioteca della spiga, novembre 2016, pp. 210, euro 16,90).
Sono stati scritti tra il 1958 e il 1963 dall’autore italo-ucraino (nato a Kiev il 28 luglio 1911 e morto a Milano il 27 ottobre 1969) ed hanno la caratteristica comune di riproporre in ambientazione moderna e molto spesso "meneghina" vicende narrate da sette grandi scrittori del passato, dai russi Anton Cechov e Feodor Dostoevskij ai francesi Guy de Maupassant e Alfred de Musset, da Miguel de Cervantes ai più remoti Lorenzo de Medici e Giovanni Boccaccio.
Del narratore aretino, ad esempio, Giorgio Scerbanenco reinterpreta la novella Federico degli Alberighi e il suo falcone, trasferita negli anni Cinquanta del ’900 nel racconto che dà il nome alla raccolta. Il titolo invece del racconto Il geloso di Estremadura è lo stesso scelto a suo tempo dal papà di don Chisciotte, ma la narrazione è trasportata in Messico, Nuovo Messico e Brianza.
In ognuno dei racconti, la straordinaria abilità dello scrittore milanese d’adozione gli consente di definire in poche righe la psicologia e i caratteri di numerosi protagonisti diversi.
L’antologia è conclusa da un testo autobiografico, in cui Scerbanenco si confessa, racconta se stesso, indicando tra l’altro come nascono i suoi personaggi.
Sono pagine che cominciano con la fuga in Svizzera, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, passando il confine senza l’aiuto di una guida o di uno "spallone" (com’erano chiamati i contrabbandieri del Ticinese), ma con la collaborazione decisiva di una contadina, incontrata strada facendo. Con un gesto provvidenziale, la donna fece segno allo scrittore e al compagno occasionale d’avventura di nascondersi tra gli alberi, evitando d’essere sorpresi da una pattuglia germanica in perlustrazione.
Pagine in cui si apprende della sua vita, un vero romanzo.
“Sono nato in Russia. Mio padre era russo, mia madre romana”
dice di sé. Teneva tantissimo a rivendicare la sua italianità, come si potrà vedere di seguito. Nell’Italietta mussoliniana del nazionalismo ottuso, dell’autarchia e delle leggi razziali dal 1938, essere di origine straniera - nato in Russia, per giunta! - non rendeva facile la vita di un bambino, di un ragazzo e poi di un giovanotto.
Aveva solo sei mesi quando la madre lo riportò in Italia, dov’è cresciuto ed ha appreso l’unica lingua che abbia mai saputo parlare, l’italiano, nonostante l’impronunciabile nome competo di battesimo: Volodymyr-Džordžo Ščerbanenko.
“Verso i diciotto anni diventai straniero, a Milano”.
Fino ad allora era rimasto a Roma, parlando romanesco come le cugine.
“Dicevamo le stesse parolacce, loro sentivano che ero italiano”.
Le ricorda belle e terribili, esclusa Fernanda, tanto buona ma che purtroppo morì.
“Fu il primo incontro con la morte, ma ero troppo bambino e i bambini non capiscono la morte”.
Ricorda di avere avuto i nonni materni, molti zii, tanti conoscenti. Per tutti loro era italiano.
“Mio padre lo avevano fucilato i comunisti, ma la mamma, gli zii, i nonni ne parlavano come di un italiano”.
Dopotutto, il suo papà era ucraino e gli ucraini sono considerati i latini di Russia.
Ed ecco che all’improvviso, arrivato a Milano verso i diciotto anni, divenne straniero. Lontano dalla famiglia, in una città dove nessuno lo conosceva, restava solo il nome, Vladimiro Scerbanenco. Lei è russo? A quel punto gli toccava cominciare a spiegare con ansia:
“sono nato in Russia, ma ci sono stato solo fino a sei mesi di età, mia madre era italiana”.
Fingevano di capire, qualcuno con gentilezza, qualcuno meno, ma si accorgeva che invece non capivano. Così gli toccava soffrire l’oscura pena che lo ha sempre accompagnato.
Difficile passare per "ariano" con quel fisico "slavo", tanto alto, longilineo, allampanato, il profilo a spigoli, il naso un tantino adunco, così diverso dal normotipo bassotto e abbronzato dell’italiano di allora. Avrebbe voluto spiegare che anche gli zii di Roma erano così, anche la madre, alti come lui, con quel profilo, quel naso (avevano preso tutti dalla nonna materna di Vladimiro), ma la timidezza gli consentiva solo poche frasi, tutt’altro che chiare.
Al principio era straniero, per tutti, anche se doveva ammettere di veder diventare gli interlocutori più condiscendenti man mano che la conoscenza si approfondiva. Da parte sua, aveva provveduto a togliere la K da Scerbanenko, diventando Scerbanenco all’anagrafe.
È divertente - ma non lo fu certamente per Vladimiro – l’atteggiamento opposto di un tipo di sinistra, orientato politicamente verso il comunismo sovietico, che gli chiese con durezza se il suo schernirsi nascondesse la "vergogna" d’essere russo, visto che insisteva tanto a spiegare d’essere italiano.
“Gli avrei messo la testa in un cassetto e poi chiuso con forza, perché questo capiva ancora meno degli altri”
conclude il campione del poliziesco all’italiana, lo scrittore al quale si sono ispirati tutti i giallisti italiani dagli anni Settanta.
Oggi sorriderebbe, se potesse leggere quante volte l’aggettivo "italiano" ricorre in queste righe.
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