Il lavatoio
- Autore: Sophie Daull
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Voland
- Anno di pubblicazione: 2021
Di che cosa ha bisogno una donna che ha perso la madre? Che cosa cerca una donna che poi perde anche la figlia? Verso dove vanno i suoi desideri, e per quanto tempo? Per che cosa viaggia, sorride, mangia, vive?
Alessandro Baricco una volta ha detto:
“È una specie di gioco. Serve quando hai lo schifo addosso, che proprio non c’è verso di togliertelo. Allora ti rannicchi da qualche parte, chiudi gli occhi e inizi ad inventarti delle storie. Quel che ti viene. Ma lo devi fare bene. Con tutti i particolari. E quello che la gente dice, e i colori, e i suoni. Tutto. E lo schifo poco a poco se ne va. Poi torna, è ovvio, ma intanto, per un po’, l’hai fregato”.
A modo suo, è questo che cerca di fare una donna con il viso appuntito e i capelli raccolti in uno chignon: scrive un libro per sublimare l’assassinio della madre, e intanto appare nei programmi della sera e presenta l’opera in varie città della Francia, continuando a rispondere a chiunque glielo chieda che “l’amore spezzato per una morte ingiusta non si risolve con un risarcimento in denaro o la prigione. Non c’è economia del perdono”, così come non è necessario sapere a quale vita sarà relegato il responsabile di un simile strappo relazionale ed esistenziale.
L’importante è concentrarsi sugli enigmi della quotidianità, continua la scrittrice, sui nomi delle stelle o dei fiori, sulla musica o sulle parole, per non ricadere nei principi binari di carnefice/vittima, colpevole/innocente, colpa/punizione. Chi la circonda non è pronto a capirla fino in fondo, non ne ha gli strumenti e probabilmente nemmeno la disposizione d’animo. Ma chi la legge sì, perché la storia dell’autrice è anche quella, fuor di finzione, del suo alter ego in carne e ossa, ovvero di Sophie Daull, attrice di teatro e romanziera arrivata da poco in Italia con Il lavatoio, edito da Voland e tradotto da Cristina Vezzaro.
Nel momento in cui la sua vicenda prende piede, infatti, la comprensione a 360° gradi è, se non accompagnata, quantomeno agevolata da una scelta narrativa singolare: da una parte c’è infatti l’omicida stesso, un uomo poco istruito e a cui è stato condonato l’ergastolo per buona condotta, e dall’altra parte c’è una donna che sta immaginando sulla carta la di lui vita quotidiana, costruendo per lui un lavoro da giardiniere e una serie di altri personaggi secondari.
L’odio e il perdono, insieme ai loro opposti e alla loro negazione, prendono quindi piede pagina dopo pagina, senza che si riesca a provare un brivido per l’uno senza straziarsi per l’altra, o a capire le ragioni della seconda senza tentare di immaginare il raptus rovinoso che deve avere colto alla sprovvista il primo.
D’altronde, Il lavatoio non è il racconto di un riscatto, né tantomeno di una vendetta: è la registrazione di un paradosso, l’accoglienza di una contraddizione, lo sguardo severo e dolcissimo che si posa sui disastri di ogni giorno, o su quelli indicibili che, se già accadono una volta, necessitano almeno trent’anni per essere guardati negli occhi. Certo, nel caso dell’assassino l’incontro non è né previsto né voluto, perché si ritrova per la prima volta faccia a faccia con la figlia della sua vittima mentre lei sta parlando in televisione del romanzo concluso da poco, e il cui protagonista è proprio lui, ma proprio in questa fatale casualità sta l’angoscia e la scintilla da cui si dipana il resto dell’opera.
In una scatola cinese dentro la quale non è mai chiaro cosa sia inventato e cosa sia successo davvero, su quale livello si svolga l’azione e quanti elementi siano il frutto di una rielaborazione di fantasia, prendono quindi forma due personaggi tridimensionali, imprevedibili, che non incarnano nemmeno per un attimo il tipo umano a cui penseremmo, se ci descrivessero per sommi capi il tragico episodio in questione e ci chiedessero di figurarci il profilo del killer e quello della figlia rimasta orfana. Al contrario, dalla loro mentalità incompatibile, dal loro bisogno di dimenticare e di rielaborare, dalle loro abitudini e dai loro incubi fugaci, intuiamo senza possibilità di errore fino a che punto l’animo umano sia abitato da vulcani pronti a tornare in attività, da crateri desolati, da prati verdeggianti, il tutto all’interno del globo della stessa vorticosa lavatrice in funzione, quasi che l’interiorità sia paragonabile a una furiosa e candida centrifuga.
Di conseguenza, si arriva agli ultimi capitoli del romanzo con uno strano senso di vertigine, a tratti di angoscia: non c’è più alcuna certezza che il peggio sia passato, che il trauma sia stato affrontato, che non possano accadere altri terrificanti miracoli della sorte. Eppure, tra un tempo verbale spiazzante e una lingua ancora una volta misuratissima, Sophie Daull ci scorta fino alla soglia dell’inconcepibile, riunifica ciò che la divisione in punti di vista e in modi di esprimersi aveva separato e consegna nelle mani di chi legge la più autentica delle descrizioni, l’unica che per le sue caratteristiche oniriche riesca a risultare credibile ben oltre l’epilogo di inchiostro.
“La morte poteva colpire”, scrive a un certo punto l’autrice per bocca della sua protagonista femminile, salvo poi svelare a chi ha la pazienza e il coraggio di non esprimere giudizi che, per quanto la morte in ogni sua forma torni periodicamente a colpire davvero, e alla cieca, ci sono anche persone in grado di schivarla, o di lasciarsela scivolare addosso come un mantello.
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