Il libro infame. Memorie dal tempo a castello
- Autore: Gianluca Nicoletti
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2013
C’è qualcuno che non lo conosce? Definire in senso univoco Gianluca Nicoletti è un po’ come pretendere di spiegare il sorriso della Gioconda: sostenere si tratti di un giornalista-scrittore, per esempio, è dire troppo e troppo poco. Gianluca Nicoletti è sui generis come la più seducente delle palle-avvelenate di Pirlo, è un accademico pop, è la trasversalità fatta persona, è un esteta dell’ibrido, il teorico della post-umanità, il cantore della medianità contaminata, è il David Cronenberg della comunicazione radiofonica (“Golem”) e delle chiare lettere. Ne consegue che il Nostro sia, in special modo, un intellettuale “oltre” (oltre l’acquisito, lo scontato, il luogo comune, il benpensantismo, il fariseismo, la critica di costume, l’analisi dei media, la bontà e la ferocia): leggerlo - nella fattispecie - significa imbarcarsi in un viaggio senza vie d’uscita tra gli infiniti sottotesti dell’iper-comunicazione 2.0, come - per anni - ascoltare il suo “Golem” radiofonico ha significato discendere nel maelstrom dell’inapparente, dietro la patina finto-soap e/o finto-horror della notizia, stampata e “televisivizzata”.
Ho da poco finito di gustarmi questo suo “Il libro infame” (Tunuè, 2013), che è tale di nome e di fatto (quando si dice nomen omen), per diversi motivi:
- perché è un libro infido, che ti sgambetta quando meno te lo aspetti: attacca come un memoir e finisce come un pamphlet. Dalla Mucca Carolina gonfiabile all’apologia di un futuro in cui
“le nuove generazioni di figli non saranno sottoposte al dovere di dividersi tra l’obbligo di riconoscenza verso chi si è sacrificato per loro e il senso di inadeguatezza a sostenere l’onere di sentirsi visceralmente legati a un patto di sangue indelebile con i propri genitori”.
- perché è un libro “strano”, spalmato tra i ricordi personali e quelli dell’immaginario collettivo, tra teoria e prassi della divergenza, le prurigini soft-core dei Cataloghi Postal Market, il “sollievo di sollevar donne” (sic!), tossicità cibernetiche e il fantaprodotto “Redupen” (che non esiste) per una terapia farmaco-riduttiva dell’organo genitale maschile.
- perché, infine, contempla alto e basso, perché è una raccolta intro ed estroflessa di teorie insolite, sbilenche, sbilanciate, frammentate, frammiste ma - a scrutare tra le pieghe degli edulcoranti comunicativi, tra le sovrastrutture ideali e post-ideologiche - più vere del vero.
Di cosa tratta allora, in ultimo e in due parole, questo “Libro infame”, provocazione-induzione ennesima nicolettiana per sopravvissuti alle narcolessie di massa del terzo millennio? Tratta di un “tempo a castello” che è il tempo dei ricordi traslati dell’autore e tratta, in definitiva, di noi, di come eravamo e come siamo diventati, attraverso pagine di scrittura, disegni, foto, fantasie, accelerazioni e rewind: dagli anni Cinquanta a oggi, in un blob multiforme e affatto colloso, in cui la prosa procede pari passo coi fumetti e le illustrazioni di Roberto Ronchi, come in una sorta di radiografia sintattica e sinapsica, individuale e di specie al contempo. Una simil-autofiction lucidamente folle, che ci illumina-sgomenta-irretisce come il lampo di un flash allo xeno, perché eviscera senza mezze misure la consistenza di cui è fatta - parafrasando Guccini - questa cosa che chiamiamo vita.
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