Nella storia della letteratura gli scrittori hanno toccato il tema della Morte dedicando ad essa poesie e romanzi, spesso per esorcizzare la paura, l’angoscia e il dolore, ma anche come processo di rivelazione, consolazione e avvicinamento alla verità misterica. Un argomento affascinante e perverso e ognuno, da credente o da non credente, lo ha trattato con distinte sensibilità e invenzioni letterarie.
Il tema della morte: opere e autori che l’hanno trattato
Tra le opere che hanno affrontato il tema della morte ricordiamo:
- Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie (Leopardi),
- Nanà (Zola),
- Un corpo (Boito),
- La morte di Ivan Il’ic (Tolstoj),
- La prigioniera (Proust),
- Dei Sepolcri,
- Ultime lettere di Jacopo Ortis (Foscolo),
- L’insostenibile leggerezza dell’essere (Kundera),
- Sostiene Pereira (Antonio Tabucchi),
- Rumore Bianco (Don De Lillo),
- Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (Pavese),
- Antologia di Spoon River (Edgar Lee Masters)
e molti altri ancora. La morte come punizione divina, la morte come punizione per mano dell’uomo (il delitto, la guerra), la morte come passaggio per l’al di là nel regno delle ombre sono alcuni dei molti temi presenti nel pensiero umano.
E poi la morte ricercata, accarezzata e tragica di chi si toglie la vita:
- Pavese,
- Majakovskij,
- Virginia Woolf,
- Hemingway,
- Amelia Rosselli,
- Silvia Plath,
- Antonia Pozzi,
- Emilio Salgari,
- Guido Morselli.
Come non citare Camus quando scrive, ne Il mito di Sisifo, che il suicidio è
"l’unico problema filosofico veramente serio. Giudicare se la vita valga o non valga la pensa di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia”.
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La Morte allegorica con la falce è la mietitrice che “arriva” senza alcun preavviso, mentre nella tradizione cristiana la sorella morte è un dono di Dio.
Nella mitologia greca la morte è un’entità maschile: si chiama Thànatos, è figlio della Notte e fratello del Sonno. Seneca, in De brevitate vitae, ci ricorda che
«non abbiamo poco tempo, ma ne abbiamo perduto molto».
Kahlil Gibran scrive in versi che
«conoscere il segreto della morte significa cercare nel cuore della vita svelare il mistero della luce»
e Freud nelle Considerazioni attuali sulla guerra e la morte (Opere) sostiene che
«c’è in noi un’evidente tendenza a scartare la morte, a eliminarla dalla vita».
Per Malraux in La via dei Re:
«la morte è l’irrefutabile prova dell’assurdità della vita».
Secondo Jung in Anima e Morte
«nella seconda metà dell’esistenza rimane vivo soltanto chi, con la vita, vuole morire. Perché ciò che accade nell’ora segreta del mezzogiorno della vita è l’inversione della parabola, è la nascita della morte (...) Disconoscere la propria età significa ribellarsi alla propria fine. Entrambi sono un “non volere vivere”, giacché non “voler vivere” e “non voler morire” sono la stessa cosa».
Per Borges nella poesia Elogio, la morte all’ombra dell’ultimo viaggio dell’uomo è la scoperta del «suo segreto centro».
Per altri autori la morte è notizia assoluta e il mistero più fitto. Per altri ancora la morte nella società consumistica è il tabù dell’uomo occidentale.
E c’è chi, come David Maria Turoldo, nella seconda metà del Novecento con una narrazione surreale ha trattato il tema della morte, anzi la sparizione della morte.
Cos’è la morte per David Maria Turoldo
David Maria Turoldo (Coderno, 22 novembre 1916 – Milano, 6 febbraio 1992), è stato un teologo, filosofo, scrittore, poeta e antifascista, membro dell’ordine dei Servi di Maria. Nel 1948 vinse il premio letterario Saint Vincent con la raccolta di liriche Io non ho mani (Bompiani) e nel 1952 pubblicò con Mondadori, con la presentazione di Giuseppe Ungaretti, Gli occhi miei lo vedranno. Con il poeta Andrea Zanzotto ha pubblicato nel 2000 per Casagrande Parole per vivere. Tra opere poetiche, saggi, testi per il teatro e traduzioni ha pubblicato più di sessanta libri e ha scritto nel 1962 un soggetto e la sceneggiatura per un film di Vito Pandolfi: Gli ultimi.
Verso la fine del 1983 incontrai David Maria Turoldo per un’intervista sul tema della morte. Pochi mesi prima avevo trattato lo stesso tema con un altro teologo (F. Bova, La morte è curiosità, intervista a Gianni Baget Bozzo in Malvagia, luglio 1983). Parlammo di molte cose ma l’intervista, per una serie di circostanze avverse non si fece, ma padre Turoldo quel pomeriggio mi regalò un libro con tanto di dedica e mi disse che in quelle pagine avrei trovato le risposte alle mie domande, tra cui a quella mia provocatoria e ingenua tesi che “la morte è la debolezza di Dio”.
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Quel libro La Morte dell’ultimo Teologo (Gribaudi, 1969) è l’unico romanzo di David Maria Turoldo che anticipa di 36 anni il romanzo di Josè Saramago Le intermittenze della morte per la ragione che ambedue le storie hanno al centro della narrazione la sparizione della morte costringendo gli uomini a vivere per sempre e nella descrizione dei fatti e delle riflessioni (filosofiche, sociologiche, economiche, politiche) moltissime sono le analogie tra i due romanzi. Mi sono domandato più volte se Saramago avesse letto il libro di Turoldo o se si fossero conosciuti. Quella di Turoldo, raccontata attraverso i documenti e le parole di un bonzo del distretto di Okinawa, che si cibava solo di radici e di miele, è la storia di un ricchissimo, civilissimo, raffinato e colto popolo dell’antichità che abitava in un’isola bellissima e prosperosa del Mare dei Coralli. L’isola, che somigliava a un capriccioso topazio,
“era stata posseduta da un furore incredibile di vivere per sempre”.
Sconfiggere la morte e vivere nella felicità era l’obiettivo di quel popolo ma, nonostante gli investimenti nella ricerca scientifica, in case della salute, meno lavoro e più vacanze, discipline sportive, cibi raffinati e feste, che avevano ridotto le malattie e alzato di molto l’aspettativa di vita, la morte continuava a mietere vittime. Accade però che nel tempo, lentamente, la morte iniziò a ridurre il suo ufficio, ma non per mano della scienza. Nessun uomo moriva, poteva ammalarsi ma non morire, poteva invecchiare, ma non morire e raggiungere anche cinquecento anni, settecento anni. Nessun bambino nasceva per il motivo che le donne oramai erano diventate troppo vecchie per procreare. Dopo l’euforia, gli abitanti di quell’isola felice iniziarono a rimpiangere la morte. Tutti erano condannati a vivere per sempre ma non avevano più progetti e ambizioni, non possedevano più memoria, avevano perduto per sempre la bellezza e i sogni della gioventù, ed erano troppo vecchi e malconci per fare l’amore. Senza alcuna tensione verso il desiderio, la noia era il sentimento che aveva corrotto quel popolo. A tal punto tutti maledirono la vita e il consiglio dei ministri di quel popolo
“s’arrovellava alla preparazione della legge circa il suicidio collettivo, onde sfoltire la popolazione”.
I monaci iniziarono a invocare Dio affinché la morte riprendesse il suo ufficio, rinascesse per dare un senso, come diceva Jung, alla parabola della vita.
Signore, liberaci dalla vita.
Signore, tu sei un fanciullo
e non sai cosa vuol dire essere un uomo di mille anni.
Dio ascoltò le preghiere di quel popolo così ricco e sventurato? Lascio al lettore il piacere di conoscere l’epilogo, anch’esso surreale, di questo romanzo che mi ha appassionato 36 anni prima di quello di Saramago. Su YouTube è possibile rivedere, trasmessa da Rai Uno, una delle sue ultime interviste:
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il tema della morte in letteratura, dalla mitologia greca al pensiero di David Maria Turoldo
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