Ci sono libri necessari, libri che appaiono come un unicuum nel panorama editoriale e svolgono una funzione precisa, sono chiamati ad assolvere un compito.
La vita di chi resta di Matteo B. Bianchi (Mondadori, 2023) è uno di questi: un romanzo che dà voce a chi non ne ha mai avuta, sradicando un tabù, uno stigma sociale, fortemente radicato nella società contemporanea. Di suicidio non si parla quasi mai e quando se ne fa cenno, con molte remore e timori, si fa riferimento unicamente alle vittime: La vita di chi resta presenta invece in esergo una dedica peculiare “Ai sopravvissuti.”
Link affiliato
Nel linguaggio scientifico sono chiamati survivors, i “superstiti”, un termine che designa chi sopravvive a una vittima di suicidio: i parenti, i familiari, gli amanti, gli amici, una lunga catena di persone unite - e tuttavia separate - da una sofferenza indicibile e diversa per ciascuno. I survivors si trovano a fare i conti con il vuoto lancinante di una perdita e, soprattutto, con il senso di colpa di non aver potuto impedirla: un dolore duplice, a doppia lama, che scava nel profondo come un coltello. In Italia, secondo quanto riportano i dati, ogni anno si suicidano in media 4000 persone: per ogni vittima ci sono almeno una decina di survivors.
Esistono protocolli di prevenzione per il suicidio, tuttavia non esiste nessuna forma di aiuto o assistenza per tutelare la vita di chi resta. Pertanto chi sopravvive al suicidio di una persona cara continua a sentire, drammaticamente, di essere il solo a cui è successo. Il libro di Matteo B. Bianchi vuole invece essere un’ancora lanciata nel mare silenzioso dell’indifferenza: parole che le persone possano leggere per superare il trauma, perché talvolta la letteratura può redimere più di una preghiera o di una qualsiasi forma di assoluzione.
Matteo B. Bianchi ne La vita di chi resta racconta un’esperienza personale e privata (il suicidio di S., il suo compagno) e la trasforma in una narrazione collettiva che si dilata dall’Io al Noi inglobando in sé le storie di tutti i sopravvissuti. Questo romanzo assolve la funzione più nobile della letteratura: “salvare”. Attualmente non esistono protocolli scientifici per offrire assistenza ai survivors: ma questo libro lo è, o se non altro rappresenta un formidabile supporto letterario, l’unico al momento in circolazione.
Il titolo originale del libro doveva essere Il dolore di chi resta, ma all’ultimo l’autore ha deciso di sostituire la parola “dolore” con “vita”. Un cambiamento significativo, perché questo romanzo è la testimonianza che si continua a vivere nonostante il dolore, che gli si passa attraverso. La vita di chi resta non è una storia focalizzata sulla sofferenza, ma sul suo superamento: non parla di un trauma passato, ma delle possibilità riservate dal futuro, invitandoci a guardare oltre il buio.
La vita di chi resta è stato proposto tra i candidati al Premio Strega 2023 da Paolo Cognetti.
Ne abbiamo parlato con l’autore, Matteo B. Bianchi, in questa intervista.
- Grazie Matteo perché hai scritto un libro importante e necessario, che dal mio punto di vista assolve la funzione chiave della letteratura “trovare una risposta al dolore”. C’è stato un momento in cui ti sei detto: ecco, ora è giunto il momento di raccontare? L’impressione che si ha, leggendo, è che la storia sia sedimentata dentro di te per anni prima di trovare una voce.
Ho aspettato ventidue anni. Mi ci sono voluti ventidue anni per trovare la forza di scriverla. In realtà ho cominciato senza dire a me stesso che la stavo veramente scrivendo: all’inizio erano solo degli appunti, dei brevi capitoletti. Questo libro è stato a lungo un’ipotesi. La scrittura è stata una scelta inconscia, avvenuta spontaneamente mentre la facevo.
- Ciò che colpisce in particolare di questo libro è la sua struttura narrativa: la prima parte procede per zampilli, ricordi, lampi di coscienza, mentre la seconda è fatta di interviste, incontri, testimonianze, prende una piega più saggistica, inframezzata dalla narrativa. Credo che il dolore sia una materia incandescente, difficile da dominare e da raccontare: come sei arrivato a trovare il giusto focus narrativo?
La struttura è venuta da sé man mano che procedevo nel lavoro. Quando ho iniziato a scriverlo non trovavo il coraggio di farlo leggere a nessuno: temevo il giudizio. Se qualcuno mi avesse giudicato in quel momento penso che mi sarei fermato subito, che non avrei più scritto una riga. Non si trattava di un esercizio letterario, ma di vita vera; io stesso non riuscivo a giudicare obiettivamente ciò che scrivevo. Ora tutti mi dicono che sono stato coraggioso a scriverlo. Ma non è stato coraggio: è stato senso di responsabilità. Io dovevo scrivere questo libro, perché per chi rimane non c’è nulla: la perdita per suicidio è come un grande rimosso collettivo. In quel periodo tutto ciò che desideravo era parlare con qualcuno che avesse vissuto la mia stessa situazione; in un certo senso ho scritto il libro che io avrei voluto leggere allora.
- Nel libro a mio parere affronti un doppio tabù: sociale e sessuale. Non parli solo di un argomento delicato come il suicidio, ma anche di omosessualità. Affronti due stigmi molto forti. A un certo punto del libro scrivi “Io vivevo con lui, ma per la legge italiana io in rapporto a lui non ero niente, non esistevo.” E la stessa riflessione ritorna anche nel giorno del funerale, in cui tu ti siedi in terza fila e non in prima. Mi ha molto colpito questo fatto: anche il tuo dolore dal punto di vista sociale era un tabù.
In realtà devo dire che questo è un fatto che nessuno nota. Mi stanno scrivendo in tanti: padri, madri, fratelli, fidanzati e fidanzate di persone scomparse per suicidio e nessuno di loro pone l’accento sull’identità di chi ho perso. È come se l’enormità del dolore raccontato annulli qualunque barriera, qualunque pregiudizio. Ogni stigma culturale e sociale viene meno e chi legge percepisce solo il racconto di una perdita devastante. Chiunque abbia vissuto un’esperienza del genere può riconoscersi nelle mie parole: la gente si riconosce solo nel dolore, alla fine è tutto quello che emerge.
- Nella narrazione ha un ruolo chiave lo sdoppiamento. C’è l’uomo che vive il dolore, poi c’è lo scrittore che vive il dolore. Dici che lo scrittore vuole calarsi nell’abisso, non salvarsi. Eppure si potrebbe dire che l’uomo e lo scrittore siano la stessa persona: in fondo sei sempre tu.
Credo che il dolore si viva in modo diverso: come uomo e come scrittore. Come uomo io questo trauma l’avevo affrontato vent’anni fa, come scrittore molto tempo dopo. Come uomo cercavo di dimenticare, come scrittore sentivo l’esigenza di ricordare, di tornare ossessivamente con la memoria sui particolari. Quando scrivi di te stesso in fondo speri che la tua storia ne rappresenti tante altre, speri di collettivizzare il tuo lavoro.
- La riflessione metaletteraria è una costante nella narrazione. A un certo punto fai riferimento a un amico scrittore che, dopo la tragedia, ti domanda: “Stai prendendo appunti?” Appare come una sorta di profezia, sapeva che ne avresti scritto un giorno. In un certo senso ti proponeva la scrittura come strumento di supporto.
Sì, era Gilberto Severini, uno scrittore che stimo molto. La sua telefonata mi sorprese perché all’epoca ci eravamo visti soltanto una volta, alla presentazione di un suo libro. Non mi aspettavo che mi chiamasse. Ma le sue parole mi sono state di grande conforto. In quel periodo ricevevo molte telefonate morbose, tutti mi chiedevano: “Com’è successo?”, alcuni insistevano su particolari che non volevo dire. Lui invece semplicemente mi chiese: “Stai prendendo appunti?” E con quella domanda mi sentii capito. Ho compreso che ragionavamo nello stesso modo. Ammiro molto Gilberto Severini, la sua scrittura raffinata, elegante, la sua maniera di raccontare la provincia italiana. I suoi libri oggi sono pubblicati dalla casa editrice Playground.
- Dici di aver sempre cercato nella letteratura una salvezza, come se si trattasse di una religione. Nel libro in effetti i peritesti svolgono una funzione fondamentale: citi Joan Didion, Susan Sontag, Ocean Vuong. Ciascuna frase scandisce l’inizio di un nuovo capitolo, come in un processo di risalita. Sono i testi che ti hanno aiutato ad affrontare il dolore, a trovare delle risposte?
Ciascuno di quei testi mi ha, a suo modo, accompagnato nel momento di passaggio che stavo vivendo. Ma a ben vedere non cito solo autori famosi come Didion e Sontag. C’è per esempio anche Steve Abbott, uno scrittore, poeta e attivista americano che non conosce quasi nessuno. O John Waters che, oltre che scrittore, è anche regista. E una citazione di Lidia Yuknavitch tratta dal suo recentissimo La cronologia dell’acqua (nottetempo 2022) che descrive lo sdoppiamento tra realtà e scrittura, raccontando una verità narrativa in cui credo molto. Quando scrivi devi tenere conto non tanto della realtà, della verità dei dettagli, ma della “verità narrativa” che è ciò che rende la storia interessante per gli altri, per i lettori.
- È interessante, sempre dal punto di vista narrativo, il passaggio dall’Io al Noi. È come se passassi dall’arroganza, dalla testardaggine del dolore, a una volontà di condivisione, di apertura. Alla fine il dolore diventa qualcosa che puoi condividere, donare agli altri. Questo libro è una sorta di “dono elargito”?
Scrivendo mi sono reso conto che parlavo di un noi, quel “Noi” in effetti rappresenta tutti i survivors, i sopravvissuti, a cui il libro è dedicato. Questa consapevolezza mi ha spinto ad aggiungere al libro anche le voci degli altri: testimonianze di altri survivors, di medici, di psicologi. Non era solo la mia storia, erano anche altre storie. Quando si soffre si pensa sempre di essere gli unici, di essere i soli, questo libro invece vuole dimostrare che non è così e offrire un supporto.
- Dici di aver scritto La vita di chi resta non per te stesso, ma per un senso di responsabilità. Di recente il libro è stato proposto al Premio Strega 2023 da Paolo Cognetti. Inoltre sta suscitando una grande reazione di pubblico. È la prova che sei riuscito a trasmettere il tuo messaggio, non credi?
Sul Premio Strega non mi faccio illusioni, sono candidato insieme ad altri ottanta autori, un numero enorme. Ma ultimamente sto ricevendo numerosi messaggi da parte di persone che si riconoscono nelle mie parole e mi ringraziano. Spesso la gente si ritrova in ciò che ho scritto e vuole raccontarmi la sua storia. Questo “grazie” da parte dei lettori è la prova che il libro ha raggiunto il suo scopo.
Di recente mi ha scritto anche una giornalista dicendo che vorrebbe aprire un’inchiesta sull’argomento survivors: credeva che i dati da me riportati nel libro fossero falsati per ragioni narrative, invece sono veri - e questo ha generato parecchio stupore. Ho portato alla luce un grande rimosso collettivo e spero che questo possa generare una reazione, cambiare le cose, portare anche azioni utili dal punto di vista medico, scientifico, psicologico.
leggi anche
Nasce ACCĒNTO, la casa editrice di Alessandro Cattelan. Intervista a Matteo B. Bianchi ed Eleonora Daniel
- Credi che la scrittura di La vita di chi resta ti abbia aiutato a raggiungere una nuova consapevolezza? Come ti senti dopo aver raccontato una storia che ti portavi dentro da tanti anni?
Non credo nella visione della scrittura come terapia. La scrittura non è terapeutica, anche se può aiutare a guardare dentro sé stessi. Io sono esattamente la stessa persona che ero prima di scrivere questo libro. Sono sempre io, non sono troppo cambiato dopo aver scritto La vita di chi resta. Quello che cambia è che ora il libro c’è: è scritto, e la parola passa ai lettori.
Recensione del libro
La vita di chi resta
di Matteo B. Bianchi
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Matteo B. Bianchi racconta “La vita di chi resta”
Naviga per parole chiave
Approfondimenti su libri... e non solo Ti presento i miei... libri News Libri Mondadori Matteo B. Bianchi
Lascia il tuo commento