Immagine di copertina Credits: Elena Torre from Viareggio, Italia, CC BY-SA 2.0, via Wikimedia Commons
Tullio Avoledo è nato a Valvasone, in Friuli, nel 1957 e vive e lavora a Pordenone. Dopo aver esordito nella narrativa con L’elenco telefonico di Atlantide (Sironi editore, 2003, Einaudi, fine 2003, Marsilio, 2021), ha pubblicato Mare di Bering (Sironi, 2003, Einaudi, 2004), Tre sono le cose misteriose (Einaudi, 2005), Breve storia di lunghi tradimenti (Einaudi, 2007), La ragazza di Vajont (Einaudi, 2008), L’ultimo giorno felice (Edizioni Ambiente, 2008, Einaudi, 2011).
Per Marsilio editore ha pubblicato i romanzi Chiedi alla luce (2016), Lo stato dell’Unione (2020), Nero come la notte (2020, premio Scerbanenco), Come navi nella notte (2021).
L’intervista a cura di Vincenzo Mazzaccaro è dedicata al suo ultimo romanzo, Non è mai notte quando muori (Marsilio editore, 2022).
- Complimenti per il libro, l’ho trovato molto bello. In un pandemonio di libri di genere, tra ispettori, avvocati, commissari, dove sembra che in Italia ci sia bisogno di almeno tre omicidi al giorno, fortunatamente su carta, Tullio Avoledo toglie dalla naftalina Stokar, a cui interessano pochissimo i morti ammazzati italiani e fa il giro del mondo, quasi soltanto per i soldi e perché sull’isola cominciava ad annoiarsi. Chi è Sergio Stokar?
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Grazie per i complimenti. Sergio in questo romanzo l’ho mandato in giro per il mondo perché quello che mi è mancato di più durante il lockdown è stata la possibilità di viaggiare oltre il cancello di casa. Quindi l’ho fatto girare a lungo prima di arrivare alla meta. Ma ogni tappa del viaggio era importante, aggiungeva un tassello al racconto e alla costruzione dei personaggi, Stokar in primo luogo. Sergio tornerà in Italia, dato che l’Italia si sta adeguando ai miei romanzi e sta per diventare un posto nero, ma proprio nero. E non mi riferisco solo alla politica, ma al generale incarognimento che ci riguarda tutti, a cui non scappa nessuno. Più diventiamo poveri e soli e più diventiamo cattivi, cerchiamo il capro espiatorio, il diverso a cui togliere diritti, da spingere un gradino più in basso del nostro. Sergio mi sembra l’eroe perfetto per questi tempi in cui le classiche equazioni del noir (l’omicidio turba l’equilibrio sociale, un’indagine scova il colpevole, l’investigatore buono lo assicura alla giustizia ripristinando l’ordine) non reggono più. Sergio non crede più nell’ordine e nella giustizia: crede nell’importanza di proteggere i deboli e di togliere di mezzo i cattivi. È un antieroe che nasconde i propri dubbi e le proprie debolezze dietro una patina di cinismo e un atteggiamento screanzato e per niente politically correct. Prova orrore per il mondo in cui vive, e traveste questo orrore da disprezzo. Comunque prima di riportarlo in Italia lo manderò in un altro cuore di tenebra, purtroppo molto più vicino dell’Ard Alshams. E ho già in mente un finale strepitoso, che vorrei poter vivere in prima persona.
- Non solo per la pandemia da Covid-19, oggi le città del mondo sono diventate cupe e tristi e sembra si divertano solo i miliardari che hanno scelto il crimine e il doppio gioco. Che fine hanno fatto le brave persone?
Non esistono quasi più, le brave persone. Già il fatto che quando ne emerge alla ribalta una la cosa faccia notizia ci dice che sono rare, maledettamente rare. Ma forse si tengono solo basse, nascoste. Speriamo. Quanto ai miliardari, non hanno molto da divertirsi, in un mondo sempre più pericoloso anche per loro. Guardi gli oligarchi russi. Non si può essere felici in un mondo infelice, o sicuri in un mondo insicuro. I neuroni specchio li abbiamo tutti. Inoltre avere l’unica casa riscaldata e ben illuminata in un mondo dove tutti gli altri sono al freddo e al buio non ti mette al sicuro: anzi. Guardate cos’è successo a Maria Antonietta.
- Credo che l’intreccio di questo libro sia piuttosto difficile da seguire, ma se capisci quello che inizialmente dice l’avvocato inglese Allenby, poi tutto diventa chiaro. Perché una trama così sontuosa?
Mi andava di provare a costruire un meccanismo narrativo complesso per vedere se sarei riuscito a reggere le fila di tutte le sottotrame. Mi sembra non sia andata male. Inoltre sono disgustato dal vedere come sempre più persone cerchino di ridurre la complessità del mondo e della storia a trame semplici, adattando la realtà alla loro interpretazione. Uniscono i puntini, come in quel gioco della Settimana Enigmistica, ma usano pochi puntini, ignorandone la quasi totalità, e così ottengono disegni sbagliati, scarabocchi infantili.
Inoltre, da scrittore, mi chiedo sempre: che soddisfazione c’è, a fare le cose facili?
- Mi sembra che Sergio Stokar sia il nostro nuovo James Bond. Che cosa abbiamo fatto di male per meritarcelo, anche se non è poi così arrogante e omofobo o lo è ma sa contenersi. Perché le piace giocare con Stokar?
Per motivi personali legati a un’esperienza infantile traumatica ho la fobia di James Bond. Un’autentica fobia. Se Johnny Depp ha quella dei clown, perché io non posso averla di James Bond? Dagli anni ’60 non ho più visto un suo film. Non li sopporto. Una volta, a un festival letterario, pensando di farmi un regalo mi hanno ospitato in un hotel milanese a tema James Bond. Cimeli bondiani dappertutto. È stata una notte insonne. I romanzi in fondo nascono anche da notti insonni e incubi. Ma non parlatemi di 007.
Quanto a Sergio, mi piace che non rimanga lo stesso dall’inizio alla fine ma che cambi opinione e, alla lunga, carattere. Come disse Miguel de Unanumo, uno scrittore spagnolo, “Il fascismo si vince leggendo, il razzismo viaggiando”. Stokar è uno che ha letto e legge molto. E ora lo sto facendo anche viaggiare. Vi spiazzerà ancora. So che va contro le regole della serialità, far evolvere un personaggio. Ma io ho amato i gialli dell’87° Distretto di Ed McBain, che sono un inno al cambiamento e allo scorrere del tempo.
- È un libro lungo, pieno di sottotrame, per non parlare poi della varietà dei personaggi. Quanto tempo ha impiegato a scriverlo?
Due anni e mezzo. Tenendo conto, però, del fatto che quando sono a metà della scrittura di un romanzo comincio già a lavorare a quello successivo. Facciamo un anno e mezzo, più il tempo dell’editing.
- Una mia amica, che ha letto i libri precedenti, mi dice sempre che ci sono almeno cinquanta pagine in più e litighiamo perché io invece vorrei fosse una narrazione infinita, di seicento pagine. Come decide quanto deve durare una storia?
Lo decide la storia. I miei romanzi seguono uno schema, che può piacere o no: tre quarti di preparazione, di lento sobbollire e precisarsi della trama e dei personaggi, e poi BLAM, azione, corsa a perdifiato… Mi vengono così… Diciamo che a metà della scrittura mi rendo conto di quante pagine mi ci vorranno, per finire la storia. Comunque, la sua amica può sempre strappare le pagine che le sembrano di troppo. Mentre la vedo più dura per lei se vuole aggiungerne. Ma mi chiami e possiamo sempre metterci d’accordo, se il prezzo è giusto.
- La parte che riguarda Ard Alshams sembra un po’ come immagino che diventeranno presto o tardi alcuni paesi africani, ma anche qualche Stato europeo. Sono molto spaventato. Lei?
Abbastanza. Già il mondo così com’è mi spaventa. E ci sono, purtroppo, ampi margini di peggioramento. Ma alla fine, come dice il poeta Charles Simic, “il mondo non finisce”. Perde solo pezzi, noi compresi. Ma si trovano sempre ricambi, anche se non sempre originali. Nessuno di noi è essenziale o insostituibile. Tranne che per sé stesso.
- Non si può dire molto di questo libro, perché si tolgono le sorprese. Perché le bandelle invece dicono praticamente tutto?
Ah, sì, me l’hanno chiesto spesso. Tendo ad essere trasparente, nelle bandelle, alle quali spesso metto mano io. E anche parlando a voce dei miei libri tendo a spoilerarli. Di solito, e in questo caso non vedo perché fare eccezioni, rispondo che l’importante non è sapere come va a finire. Se non si entra troppo nei dettagli, avere un’idea chiara della trama non ti rovina il piacere della lettura e nemmeno azzera l’elemento sorpresa. Tutti sappiamo chi sono i colpevoli di Assassinio sull’Orient Express. Eppure ogni volta lo rileggiamo con piacere, per il gusto della lettura. Penso che lo stesso succeda coi miei libri. O almeno, mi dicono così.
- Stokar è così omofobo che in un preciso punto del libro uno lo metterebbe con la bandiera del gay Pride in testa al corteo. Perché ingarbuglia le carte?
Stokar è un uomo complicato, che svelerà i suoi segreti romanzo dopo romanzo. Comunque non è affatto omofobo, se non a parole.
- In realtà, in questo libro, oltre alla disperazione per un mondo impazzito, c’è un’ironia leggera, quasi a dire che tutto sommato non è stato così male vivere sulla terra. È così o non ho capito niente?
Ha capito benissimo. Vivere per me è stato e continua ad essere bello. C’è sempre qualcosa da scoprire. Anche solo la musica basterebbe a pagare il prezzo del biglietto per questo mondo. Ci sono stato bene, e mi spiace che tanti stronzi, in alto come in basso, non trovino di meglio da fare che rovinarlo, e minacciarlo. È un mondo bellissimo. E comunque è l’unico che abbiamo. Per questo provo un senso di malinconia all’idea che fra non molti anni dovrò lasciarlo.
- Le propongo due nomi molto diversi, di persone non dello stesso sesso e di tempi non sincronici. Meglio Patricia Highsmith o Raymond Chandler?
Chandler forever. Senza nulla togliere a nessuno. Ma Chandler über alles. Come scrittore noir nasco da una sua costola, come Stokar da quella di Philip Marlowe.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista allo scrittore Tullio Avoledo, in libreria con “Non è mai notte quando muori”
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