La storia di John Fante ricorda quella del protagonista del suo capolavoro, Chiedi alla polvere, Arturo Bandini. Un ragazzo che voleva scrivere e vagava per le strade polverose e aride di Los Angeles cercando la vita da mettere sulla pagina. Proprio come Fante, Bandini è un cattolico di origini italiane che vive in America; proprio come Bandini, John Fante non aveva soldi ma nutriva grandi speranze; era povero ma spendaccione, volenteroso ma pigro; sognava di pubblicare un romanzo di successo e fu quel sogno a fare la trama di una vita.
John Fante: la vita e le origini
Sono nato in un appartamento nel seminterrato di una fabbrica di maccheroni nella zona nord di Denver.
Questa è la biografia di Arturo Bandini, così il personaggio si presenta in Sogni di Bunker Hill, ma potrebbe benissimo essere l’inizio della storia di John Fante. Era l’8 aprile del 1909 a Denver, in Colorado, e un neonato strillava in un seminterrato per annunciare di essere venuto al mondo. Lo accoglie già ubriaco il padre Nicola, un muratore di origini abruzzesi che si definisce “il più grande muratore della California”, e lo stringe forte tra le braccia la madre Mary Capolungo, nata a Chicago da genitori di origini lucane.
In America quelli come John Fante venivano chiamati WOP, un acronimo di “WithOut Passport”, per indicare le loro origini straniere. Era nato negli Stati Uniti, si chiamava John - proprio come la maggior parte dei cittadini americani - eppure continuava a pesare l’eredità pesante di quel cognome “Fante”, che avrebbe fatto per sempre di lui - e senza scampo - un italo-americano. La sua condizione - giudicata inferiore, un cittadino di serie B - gli viene schiaffata in faccia come una punizione. John Fante era un bambino povero, dalle scarpe lacere, che frequentava la scuola parrocchiale cattolica e l’istituto dei gesuiti riuscendo a diplomarsi a fatica, non certo per mancanza di intelligenza; ma ci sono luoghi su questa terra in cui la classe sociale mina persino l’intelletto. John era un bambino sveglio, ma povero; era un bambino dotato, ma un italo-americano, dunque un americano a metà, che sguazzava con i piedi nel fango; aveva ben poche possibilità di realizzarsi nella vita, almeno che non volesse fare il muratore, come suo padre che lavorava di fatica di giorno e beveva la sera, eppure lui era determinato a scrivere. Si iscrisse all’università del Colorado, dove scoprì una discriminazione ancora più forte: non si liberava di quell’etichetta di “WOP”. Era uno studente povero che doveva lavorare per pagarsi gli studi e, nonostante tutti i suoi sforzi, i soldi non bastavano mai. Il padre - il mitico “Nicola muratore” - intanto aveva abbandonato la famiglia stregato dal desiderio per una donna più giovane e John si ritrovò, tutto solo, ad aiutare la madre a mantenere i fratelli.
Quindi abbandonò l’università e iniziò a svolgere vari lavoretti precari. Con in testa quella balzana idea di “fare lo scrittore”, John Fante si trasferì a Los Angeles convinto che avrebbe trovato nelle assolate strade californiane la materia della sua scrittura. Non fu certo facile. Andò avanti destreggiandosi alla meno peggio come fattorino, impiegato, operatore portuale, addirittura fece l’inscatolatore di tonno; ma nel frattempo, alla fine delle sue faticose giornate, John Fante non si affogava nell’alcol (come il padre), continuava a scrivere, la scrittura era il suo inguaribile vizio. Restava accesa in lui una speranza mentre inanellava una parola dietro l’altra e inviava i suoi racconti alle principali riviste in attesa di vederli pubblicati. Un suo racconto venne pubblicato sulla prestigiosa The American Mercury diretta da H. L. Mencken; ed è proprio qui che la storia di John Fante si fonde con quella di Arturo Bandini, il suo protagonista, lo scrittore italo-americano squattrinato che sogna di scrivere un capolavoro mentre finora ha scritto un solo racconto dal titolo alquanto bizzarro,Il cagnolino rise. La prima storia pubblicata da John Fante si intitolava, invece, Altar Boy. Al principio il manoscritto gli fu rimandato indietro perché non era battuto a macchina. Così Fante rimediò una macchina da scrivere e, da quel momento, divenne uno scrittore. Il racconto gli fu pagato ben 175 dollari e gli permise di saldare alcuni debiti; improvvisamente John capì che quella era la sua strada.
Davanti agli occhi, proprio come Arturo Bandini, aveva soltanto un foglio dattiloscritto: ogni sua esperienza di vita doveva divenire una pagina, essere ingurgitata e masticata dalla macchina da scrivere. Era il 1930, il successo sarebbe arrivato soltanto nel 1950 con la pubblicazione di Full of Life. Vita e scrittura si intrecciano, definitivamente; realtà e immaginazione sono la stessa cosa su quel foglio bianco che, battuta dopo battuta, si riempie di tracce, di simboli, di storie.
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Il successo di John Fante
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Il primo vero successo commerciale di John Fante - e dunque la stabilità economica - arrivò nel 1952 con la pubblicazione di Full of Life. Era il suo quarto romanzo. Il primo lo aveva pubblicato nel 1938, Aspetta primavera, Bandini, dove appariva per la prima volta quel protagonista che, in fondo, era anche il suo alter ego: in quelle pagine narrava le difficoltà di integrazione di un immigrato italiano nell’America degli anni Venti e i patimenti di una famiglia povera per cui i soldi sono un bisogno e - di conseguenza - un’ossessione. Quel primo libro vendette 2300 copie. La storia di Arturo era anche la sua storia, la voce del suo protagonista era la sua voce e inoltre condividevano la medesima ossessione, ovvero la scrittura. A quel libro ne seguirono altri, La strada per Los Angeles e il celebre Ask the Dusk, ovvero Chiedi alla polvere, oggi considerato il suo capolavoro. Paradossalmente, alla sua prima uscita, Chiedi alla polvere vendette solo 2100 copie - meno del primo libro della saga - e meno della metà del secondo, La strada per Los Angeles, che invece ne aveva vendute 4300. Non è dunque dai dati di vendita che si giudica un capolavoro letterario. Ad avere maggior successo di vendite tuttavia, nell’America degli anni Cinquanta, fu Full of Life, il libro che aveva per protagonista John Fante in persona - fu l’editore, a questo punto, a consigliargli di usare il suo vero nome e fu adattato per il cinema - con tanto di nomination agli Oscar - l’anno successivo. A questo punto l’autore narra di sé stesso senza pseudonimi, senza infingimenti né retorica: è il momento migliore della sua vita ciò che narra, l’attimo di massima luce, di massima gloria, in cui il disegno dell’esistenza appare perfettamente compiuto, prima che tutto si sgretoli e si svuoti di senso. C’è un momento così, un full of life, nella vita di ciascuno. John raccontava di sé stesso e della moglie Joyce Smart, una redattrice colta e istruita, alle prese con l’arrivo del loro primo figlio. La narrazione è ironica, con esilaranti tratti da commedia, ma anche profonda, a tratti tragica, proprio come nella saga di Arturo Bandini: la vita perfora la pagina e fa capolino occhieggiando tra le righe. John Fante racconta la storia di una gravidanza e di un’attesa, ma anche della solitudine che la accompagna, dell’aspettativa che si gonfia a dismisura e quasi toglie il fiato. La felicità è la trama inseguita come una costante da Fante, una ricerca infinita che scorre sottotraccia in tutti i suoi libri, ma, quando arriva, è anche un pensiero che imprigiona. A un certo punto il protagonista-autore si domanda:
“Sono davvero convinto che la vita con lei e con il bambino che ci terrà imprigionati sarà la mia felicità?”.
Il titolo scelto, non a caso, rifletteva una situazione precisa: “pieno di vita”, una metafora per indicare la gravidanza, ma anche la speranza, l’apice raggiunto dall’età adulta. Da quel momento non sarebbe potuto iniziare altro che il declino. La massima realizzazione e quindi la discesa, la lenta caduta: è questa la parte spesso non scritta nelle favole, quella che segue il sospirato lieto fine. John Fante, l’italo-americano che voleva scrivere, era diventato uno scrittore e aveva finalmente raggiunto il successo sia in campo letterario che cinematografico. Dopo questa apoteosi, l’anno dopo la pubblicazione del romanzo, scoprì di avere il diabete e dovette fare i conti con una malattia sempre più invalidante che riduceva le sue forze.
Gli ultimi anni di John Fante
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Negli anni Cinquanta e Sessanta John Fante è un uomo ricco, acclamato, a tutti gli effetti realizzato. Ormai è uno scrittore affermato e uno sceneggiatore di successo di film hollywoodiani; la moglie Joyce gli ha dato ben quattro figli e hanno acquistato una bella casa a Malibu. Quel bambino WOP con la pioggia nelle scarpe, nato in un seminterrato di Denver, non è che un lontano ricordo, un fantasma.
Nella sua nuova vita John Fante non è più Arturo Bandini, lo scrittore ventenne squattrinato con il cuore spezzato dalla delusione amorosa per Camilla, è un altro uomo, uno che forse nemmeno lui avrebbe immaginato. Il successo gli arrideva, eppure lui continuava a considerare il suo lavoro di sceneggiatore come un ripiego, come una professione inferiore, era qualcosa che lo allontanava dalla letteratura, mortificando il suo talento. Nel cuore era sempre rimasto Arturo Bandini, con un sogno nel cuore che era più grande di ogni bisogno e sbaragliava persino lo spettro insidioso della povertà. Per questo motivo Charles Bukowski, che lo conobbe nei suoi ultimi anni quando era ormai molto malato, lo definì un “narratore maledetto”. Nel 1977 aveva pubblicato La confraternita dell’uva, sarebbe stato il suo canto del cigno.
Ormai John è cieco, ha entrambe le gambe amputate, la malattia lo sta logorando. Eppure è un grande scrittore adesso: negli anni Ottanta tutti i suoi libri vengono ristampati da una delle maggiori case editrici americane in un’edizione speciale e rinnovata. Dovrebbe essere l’apice della sua vita, eppure è il declino: la gioventù è lontana, l’ha lasciata in una strada polverosa di Los Angeles, custodita in un libro scritto col sangue e col cuore dove troneggiava la dedica scritta di getto “A Camilla, con amore”, come un addio.
Anche quando fisicamente non poteva più scrivere, John Fante non smise di scrivere. Dettò il suo ultimo romanzo, Sogni di Bunker Hill, alla moglie Joyce, redattrice meticolosa e attenta. Con quel libro si concludeva la saga di Arturo Bandini e anche la sua vita. Raccontava, ancora una volta, la storia di Arturo che sognava di diventare un giorno un grande scrittore, eppure scopriva che la realtà era molto più dura e impietosa della sua immaginazione. Era il 1934, un ventenne dai pantaloni larghi era appena arrivato a Bunker Hill, il quartiere più chiacchierato di Los Angeles. Ecco che la vita si riavvolgeva su sé stessa (o forse era la letteratura?) come in un lungo flashback: il grande John Fante tornava a essere Arturo Bandini, riviveva la sbandatezza e la povertà, l’incertezza e il precariato patiti cinquant’anni prima, ma con una memoria addolcita dal ricordo.
Sogni di Bunker Hill sarebbe stato pubblicato nel 1982; John Fante morì l’8 maggio 1983, all’età di 74 anni, parlando ancora di una nuova storia che aveva in mente di raccontare. Era stato uno scrittore fino alla fine. Proprio in quell’ultimo libro faceva dire a Bandini la famosa frase “Sono nato”. Sono ancora i libri oggi a raccontarci la storia di quello scanzonato ragazzo italo-americano che voleva scrivere, a partire dal suo primo vagito, l’8 aprile 1909, a Denver, nel seminterrato di una fabbrica di maccheroni.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: La storia di John Fante, l’italo-americano che voleva scrivere
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