L’amore ai tempi del petrolio di Nawal Al-sa’dawi

In un Paese di fede musulmana, come in questo caso l’Egitto, una donna non ha certamente vita facile, neppure se ha un’istruzione e un regolare lavoro come archeologa. Se vuole allontanarsi da casa, che sia per una vacanza o per lavoro, deve chiedere il permesso al marito. Non è solo il controllo e il giudizio del consorte quello che deve temere, ma anche quello degli altri uomini che rappresentano le autorità, e perfino quello delle altre donne. E se si allontana senza chiedere il permesso, sola e indifesa, rischia di passare da un controllo all’altro senza quasi accorgersene.

Non ha nome la protagonista di L’amore ai tempi del petrolio di Nawal Al-sa’dawi (Fandango, 2020 - traduzione: Stefania Dell’Anna), ma del resto nessuno dei personaggi ha un nome. Si potrebbe pensare che la spersonalizzazione dei personaggi fosse del tutto voluta, a significare che una storia come questa potrebbe succedere a chiunque in un certo contesto e la cosa avrebbe senso. La donna si allontana da casa, con la scusa di una vacanza. Il marito ne denuncia la scomparsa, dando il via a una lunga sequela di ricerche e conversazioni con l’agente di polizia, il datore di lavoro di lei e qualche sporadico e scontato intervento di uno psicologo. Lei, nel frattempo, si ritrova chiusa in un’altra casa, con un altro uomo al fianco, senza riuscire a capire di chi si tratti e perché abbia sostituito suo marito. Il suo lavoro, adesso, è quello della donna di fatica, preposta a trasportare sulla testa i contenitori di petrolio fino alla vicina azienda. Petrolio che cola dal soffitto, sommerge tutto come una marea, si scompone in mille pagliuzze che impregnano l’aria e si attaccano a chiunque e a qualsiasi cosa, formando un velo invadente che toglie la vista e il respiro.
Come spesso succede, le peggiori nemiche della donna sono le altre donne, pronte ad accusarla di non essere una buona moglie e di non avere avuto figli, mentre il marito, vero o finto che sia, insiste sul cibo e sul sesso come se fossero le uniche ragioni di vita. La protagonista vive un continuo tentativo di fuga, armata solo di uno scalpello che utilizza per cercare nel terreno le statue delle dee, ma allo stesso tempo, con una sensibilità eccessiva che solo una donna può avere in una simile circostanza, sviluppa una specie di rapporto affettivo con l’uomo, in una sorta di “sindrome di Stoccolma” che apre a momenti di reale confronto e persino solidarietà fra i due. Non si tratta di un confronto religioso: la religione è il debole alibi che l’uomo usa per giustificare una mentalità, un patriarcato così radicato nel sentire comune da apparire quasi impossibile da sradicare. L’uomo lavora per soldi, la donna per amore, e questo è quanto: tutti gli uomini della sua vita si confondono, diventano l’uno la fotocopia dell’altro, la stringono in una morsa dalla quale non ci si può liberare…

Non è facile leggere questo libro. È un percorso fatto di curve e di sovrapposizioni, nel quale il sogno e la realtà si confondono tanto che risulta praticamente impossibile distinguerli, sotto alla continua pioggia di petrolio che colora tutto di un nero soffocante e inquietante. Non è una storia lineare, ma una sorta di pensiero che si sviluppa a fatica, sorretto dalle sensazioni, dai ricordi e dalla stanca ma tenace ribellione della donna. Un libro che ha bisogno di concentrazione, di quiete e riflessione per essere apprezzato, e per fungere da miccia per ulteriori riflessioni. Non è un romanzo da ombrellone, quindi: anzi, dalla sua lettura si può uscire esausti, per quanto sicuramente arricchiti. In ogni caso, laddove la storia e il modo in cui viene raccontata lasciassero confusi o perplessi, le Note della curatrice, in fondo al libro, riescono a portare chiarezza e aiutano a raccogliere e coordinare pensieri e sensazioni, offrendo argomenti di riflessione che forse, nella lettura, non erano stati ben colti.