L’inganno di Pilato
- Autore: Domenico Seminerio
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2020
Una “lettura spaventosa” quel romanzo del marito Rocco, appena defunto.
La signora Bruno non sa dove ha trovato la forza di continuare a leggerlo, per dieci pesantissimi giorni. Una storia diabolica, che sconquassa la fede cristiana, ne cancella le fondamenta, nega perfino la morte e la resurrezione. E poi, le descrizioni vergognose di tanti corpi sempre nudi, lui che non aveva mai guardato le altre e che non parlava di sesso. Da donna poco istruita e all’antica, avrebbe stracciato d’istinto e bruciato la bozza, ma era prevalsa la cautela di farla leggere al parroco don Salvatore, per avere un consiglio. Quei fogli custoditi in una carpetta verde, dattiloscritti e alcuni manoscritti, sono il romanzo L’inganno di Pilato, Algra Editore (Catania, 2020, collana “Fiori blu”, 304 pagine), a firma di Domenico Seminerio, siciliano di Caltagirone, già insegnante d’italiano nel licei, autore di sillogi poetiche, saggi storici e archeologici, scrittore di romanzi dal 2004.
Sicché, sull’autore nulla questio, la professione è garanzia di qualità, confermata dai contenuti. Tanto da dire, invece, sui significati.
Si tenga presente, per cominciare, che secondo le ricerche del bibliotecario ateo Rocco Bruno, raccontate dal prof. Seminerio, Ponzio Pilato era prefetto di Giudea, un grado strettamente militare.
La carica civile di procuratore venne introdotta da Roma solo dal 44 d.C. in Palestina, quindi oltre dieci anni dopo le vicende, raccontate nei Vangeli, di Gesù o Joshua, come preferisce l’erudito uomo di libri. E ci sarebbe qualcosa da correggere anche quanto alla datazione del calendario cristiano.
Lo studioso Dionigi il Piccolo ha fissato la nascita del Salvatore nel 753 dalla fondazione di Roma, anno zero convenzionale per l’umanità. Ma s’è stato Erode il Grande a ordinare la strage dei neonati a Betlemme, doveva essere ancora in vita alla nascita del bimbo di Maria. E dal momento che il re degli ebrei è morto nel 749, si deve ritenere che Joshua sia nato nel 748 ab urbe condita.
Tanto dovrebbe spostare il calendario indietro di cinque anni.
Don Salvatore Salvato, nuovo parroco di Pizzogrande, paesino di quattromila anime in mezzo alla Sicilia, aveva stabilito un franco rapporto culturale con il minuto bibliotecario mangiapreti, se non in nome della religione sul piano della comune passione per la letteratura. Il sacerdote frequentava la biblioteca e approfondivano colte argomentazioni. In particolare, a Rocco stava a cuore la figura di Pilato.
La Chiesa ha fatto del prefetto romano la quintessenza dell’ignavia, della fuga dalle responsabilità, per il suo ruolo nel processo pubblico a Gesù. Nel corso dei secoli è diventato l’esempio universale della viltà, della rinuncia ad assumere una posizione, a fare una scelta.
Dubitava della colpevolezza del Nazareno e se pure aveva il potere di liberarlo, non lo esercitò, preferendo assecondare il popolo israelita in tumulto.
Pilato è deplorato come l’unico responsabile della condanna di Cristo, ma secondo il parere di chi redige questa recensione, si è andati troppo oltre il significato puro e semplice del mondarsi le mani. Intendeva dimostrare platealmente che non erano sporche dal sangue di un innocente. Col suo gesto avrà voluto dire: non sono partecipe della morte del giudicato, come del resto si legge del resto nel Vangelo di Matteo. Perché interpretare invece in quell’avere le mani pulite un “fate ciò che volete, non m’importa di quello che gli capiterà”?
Dopo tutto, come avrebbe mai potuto modificare, con un’assoluzione, il tragico percorso del sacrificio del “figlio” condiviso deterministicamente dal “padre”? Perché attribuire ad un uomo, un romano, uno straniero, la facoltà di cambiare un destino che doveva portare inevitabilmente il flagellato sul Golgota?
Un sacrificio sul quale si è costruita la religione cristiana. Povero Pilato, accusato da duemila anni di una scelta dalla quale, all’opposto, si era voluto dissociare.
Che poi, mica c’è un solo Pilato. Quello di Michail Bulgakov non è quello di Rocco Bruno. Differenze enormi. Lo scrittore russo Il maestro e Margherita fantastica di un Pilato:
“inserito in un paesaggio tra la fantasia e la realtà russa dei primi anni del comunismo, descritta senza infingimenti e senza edulcorazioni fideistiche, che infine si adagiava nel sentimentalismo religioso, tra diavoli, streghe e scale di luce”.
Il Pilato del bibliotecario invece è verosimile, integrato nel suo ambiente, ricostruito secondo i testi degli storici antichi. La vicenda si svolge a Capri, alla corte di Tiberio, che ha eletto l’isola a sua dimora, conducendo una vita dedita ai piaceri.
Nel romanzo, che don Salvatore legge con interesse ma senza sorpresa conoscendo il pensiero laico dell’autore, l’imperatore convoca Pilato in tutta fretta. Il prefetto prende congedo dalla moglie Claudia Procula e raggiunge l’isola.
Che differenza con l’arida Giudea e che liberazione dal fanatismo degli ebrei, che non capiscono la civiltà di Roma. Tutt’intorno, in una Capri da Campi Elisi dei poeti, vede muoversi bellissime fanciulle sui prati e nei boschetti. Danzano nude o coperte di veli leggeri e fanno l’amore, senza pudore, con giovani anch’essi molto belli e discinti.
Nei panni atei del suo Rocco più che agnostici (perché non si disinteressa della verità ma ne professa una diversa), Seminerio sviluppa una moderna versione apocrifa delle vicende gerosolimitane.
In forma di romanzo, scritto bene e invitante, offre una possibile ricostruzione di quello che avvenne e del ruolo di Ponzio Pilato.
Non segue alcun intento polemico, men che meno offendere chi si affida in buona fede alla fede, consolidata da duemila anni di studi.
Non intende:
“Convertire nessuno, solo approcciarsi a una possibile verità con l’unico strumento che possiamo usare: la povera, misera, imperfetta ragione”.
L'inganno di Pilato
Amazon.it: 14,25 €
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: L’inganno di Pilato
Lascia il tuo commento