La battaglia di El Alamein
- Autore: Andrea Santangelo
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: il Mulino
- Anno di pubblicazione: 2020
El Alamein, non una ma tre battaglie nel deserto egiziano, sulla via per Suez, che le truppe italo-tedesche non hanno mai raggiunto. Due in estate, nel 1942, una alla fine d’ottobre, che ha respinto per sempre Rommel, l’Afrikakorps e le divisioni italiane. Si conosce la terza e ultima, dimenticando quelle del luglio, quasi cancellandole. Non lo fa invece Andrea Santangelo, archeologo ed esperto di storia militare, che in un saggio spiega le ragioni della rimozione e illustra, in modo sintetico ed efficace, il complesso delle operazioni in Africa Settentrionale nel secondo conflitto mondiale. Ha pubblicato La battaglia di El Alamein a metà 2020, nella collana Biblioteca storica il Mulino (232 pagine).
La memoria britannica glissa sulla prima battaglia di El Alamein. Qualche addetto ai lavori è giunto perfino a negare che sia stata combattuta. Il disciplinare della medaglia celebrativa ha riconosciuto l’Africa Star solo a chi abbia servito dal 23 ottobre 1942 al 12 maggio 1943 (liberazione della Tunisia), cancellando un anno intero, visto che l’armata inglese è nata a fine estate 1941, in vista dell’operazione Crusaders. Non a caso il distintivo è uno scudo, con una croce gialla su campo bianco.
Perché cancellare uno scontro decisivo, che impedì alle colonne di Rommel di raggiungere il Nilo e infliggere una pesantissima sconfitta militare, strategica e geografica? Non avrebbe forse sconvolto la logistica alleata, chiudendo agli angloamericani una delle due porte del Mediterraneo? Una ragione può essere la gelosia del vincitore ad Alamein a novembre, il maresciallo Montgomery, nei confronti del predecessore, Auchinleck, al comando delle forze britanniche nella battaglia d’arresto dei primi di luglio. Le colonne corazzate di Rommel e le nostre divisioni vennero bloccate a 111 km da Alessandria d’Egitto e a loro volta resero sterile la controffensiva britannica di fine luglio, nella seconda battaglia, ad Alam Halfa.
Santangelo ritorna all’inizio delle ostilità, nel giugno 1940. La Volpe non era ancora nel deserto libico-egiziano e mancava del tutto anche un minimo piano d’azione italiano che potesse infliggere un colpo improvviso al neo avversario. Il governatore della Libia e comandante militare in capo, Graziani, non aveva progetti e nemmeno intendeva impegnare le sue forze, ritenendole insufficienti. Un concetto, se non altro, era chiaro a chi lo aveva preceduto, l’aviatore e gerarca fascista Italo Balbo (abbattuto dalla nostra stessa contraerea il 28 giugno 1940): “piombare” su Alessandria di sorpresa, travolgendo gli inglesi.
Travolgere? Di sorpresa? Con truppe appiedate e mille chilometri da percorrere?
Solo per l’insistenza di Mussolini, a metà settembre Graziani si decise a muovere verso Sollum e si fermò a Sidi El Barrani, per mancanza d’acqua e rifornimenti. Il confine con l’Egitto distava ancora cento chilometri. Un’avanzata ostacolata debolmente dagli inglesi: 120 morti e 410 feriti per gli italiani, oltre a un centinaio di camion e 6 aerei; per il Commonwealth 53 tra morti, feriti e dispersi, non più di dodici automezzi e un bombardiere.
A dicembre, un’offensiva limitata del gen. Wavell (previsti solo cinque giorni di rifornimenti) sfondò le linee italiane e ricacciò Graziani fino in Tripolitania. Appena 31mila uomini all’attacco, ma con 80 tank incrociatori, 52 carri armati da fanteria e 145 leggeri, contro 120mila italiani e quattro battaglioni di carri insignificanti, armati solo di mitragliatrici.
I proiettili delle batterie anticarro italiane da 47 mm rimbalzavano sulle corazze dei Matilda del 7° Royal Tank Regiment. Pezzi e serventi erano schiacciati dai cingoli e i fortini aggirati dalle colonne corazzate inglesi, che accerchiavano intere divisioni, ancorate staticamente al terreno. Fortificazioni? Muretti di pietre a secco, filo spinato, sacchetti di sabbia, qualche mina, trincee armate di mitragliatrici e pochi cannoni.
Un anno e mezzo di batoste militari dopo, persa la guerra parallela, Mussolini aveva dovuto subire l’arrivo di Rommel, la cui ennesima brillante offensiva corazzata ricacciò i britannici dalla Cirenaica e si spinse verso Suez. La componente italiana non era nemmeno lontana parente dell’armata di Graziani (silurato a febbraio del 1941), ma i difetti congeniti restavano. La riduzione da tre a due reggimenti aveva indebolito le divisioni di fanteria e non favoriva la flessibilità tattica. L’addestramento delle truppe era superficiale, la logistica carente, modesta la potenza di fuoco e quasi inesistente il coordinamento tra i reparti. La categoria dei sottufficiali era scadente. Motorizzazione e comunicazioni in ritardo di almeno dieci anni rispetto agli altri eserciti. A El Alamein, il 70% delle nostre artiglierie risaliva alla prima guerra mondiale, come le armi individuali. Il fucile era ancora il Carcano modello ’91 delle guerre coloniali, con calibro (6,5 mm) e prestazioni balistiche troppo inferiori. Fucili mitragliatori e mitragliatrici pochi e in qualche caso fatalmente difettosi. Unica eccezione, la pistola semiautomatica Beretta M34, apprezzata dai tedeschi e dal nemico perché non s’inceppava nonostante la sabbia.
Quando si realizzava qualche buona arma, come l’ottimo cannone antiaereo e anticarro 90/53, la debolezza dell’Italietta industriale non consentiva di produrla in tempi brevi. Insomma, sarà venuta meno anche la fortuna, ma soprattutto è mancata la capacità di potenza del Paese.
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