La fame
- Autore: Matteo Tarasco
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2020
La fame di Matteo Tarasco (Scatole Parlanti, 2020) è un romanzo sorprendente, intenso ed emozionale, crudo e passionale, una lettura che mi ha lasciato senza fiato e con le lacrime agli occhi, come il protagonista che racconterà il suo inenarrabile dolore. È la storia di Salvatore, sopravvissuto a uno dei tanti eccidi tedeschi durante la seconda guerra mondiale, privato dei suoi affetti più cari e della sua libertà. E anche una grande storia d’amore racchiusa nelle parole, "ricorda quello che ho fatto per amore e perdona quello che ho fatto per paura", mantenuta viva nella memoria, nella sofferenza, nelle assenze, nella forza d’animo del protagonista. La scrittura dell’autore è un flusso di immagini che trasformano la storia in un dialogo, da lettore a spettatore, a sottolineare l’incomunicabilità del protagonista, la sua chiusura al mondo per oltre quarant’anni.
La fame è il primo romanzo di Matteo Tarasco, uno dei registi e drammaturghi più importanti del nostro teatro, premiato dalla Presidenza della Repubblica Italiana. È stato docente presso l’Università di Bologna e direttore artistico per Rai Sat. Primo e unico regista italiano nominato Membro del Lincoln Center Theatre Directors Lab di New York, stimato in tutto il mondo ha lavorato a Londra, Atene, Tokyo, ed è visiting artist all’Università di Harvard.
Salvatore era il paziente della stanza numero cinque dell’Istituto di Igiene mentale. Non aveva mai voluto parlare con nessuno e Arianna, la giovane psicologa tirocinante, era intenzionata a prendersi cura del suo caso. Amava il suo lavoro, e in quel particolare periodo l’essere maggiormente impegnata la sollevava dai pensieri; non le dispiaceva rimanere chiusa tra quelle mura nascosta al mondo. "Un po’ di colore sulle unghie" le dava protezione, per un padre scomparso per sempre, per il silenzio rumoroso del suo piccolo alloggio, per la sua solitudine.
Salvatore era rinchiuso nella sua stanza "di tristi memorie" dal 1944, dal giorno della sua disgrazia. Anni di costrizioni, trattamenti psichiatrici disumani, elettroshock, letti di contenzione e camicie di forza lo avevano reso un uomo inerme, dal corpo invecchiato, con due piccoli occhi chiari ridotti a due fessure sul viso rugoso "che portavano impresso un dolore antico", un dolore che cadeva sulle spalle di chi entrava nella sua cella. Arianna lo aveva sentito.
Aveva con sé un registratore, "la macchina che prende le parole", ed era pronta a infrangere il silenzio dei tanti anni che avevano tenuto isolato quell’uomo mesto che non riusciva a esprimere con le parole il suo dramma. Era la sera della finale di calcio dei mondiali del 1982, l’Italia giocava contro la Germania e le urla di gioia si contrapponevano al muro del dolore della stanza numero cinque. Seduto su di una seggiola con la camicia da internato sulle sue larghe spalle di contadino, "sordo alla realtà in un’aria che odorava di acido fenico", iniziò a raccontare cosa era successo, "la sua disgrazia".
Tutto era avvenuto per colpa della fame, racconterà, la fame vera, quella che si prova quando si è senza cibo per giorni interi con la testa che batte, il fiato che manca e le braccia che devono lavorare. La guerra era lontana dalla sua valle dove viveva con Caterina e il piccolo Tommaso e la si sentiva raccontare solo da chi era tornato dal fronte. Non tutti erano partiti, non si poteva lasciare il campo che si arava per vivere. Salvatore lavorava la terra a mezzadria come avevano fatto suo nonno e suo padre. La sua guerra la faceva tutti i giorni nei campi a sudare dall’alba al tramonto, con la speranza, come gli aveva raccontato l’amico Pino, di un mondo nuovo nel quale i contadini sarebbero divenuti i padroni della terra che coltivavano.
E poi un giorno tra i rombi dei bombardieri sentì urlare "Fuoco"! Nascosto dietro gli alberi, il massacro: le urla e poi più niente. "Una catasta di cadaveri dei miei morti ammazzati", sull’aia dove fino alla sera prima c’era vita. Venne portato via su di una strada piena di buche. La porta della sua casa diventava piccola; la casa dove era nato, dove era diventato uomo, dove aveva sofferto e gioito. Se era sopravvissuto a quella carneficina, racconterà, doveva esserci un perché e doveva cercarlo.
Arianna nello scrivere a mano, riportando le parole di Salvatore, si soffermava su di esse a comprenderne l’essenza e il mistero che si celava. Ricordò ciò che le avevano insegnato all’università, la chiusura di una ferita prendendo i lembi del tessuto, il dolore che si sarebbe placato e la guarigione. "Ma ci sono ferite nascoste dentro ciascuno di noi che non si possono rimarginare e continuano a sanguinare". La tragedia di quell’uomo mite sembrava aver fatto breccia in lei, e come per il suo paziente anche "il muro invisibile dentro di lei" si stava sgretolando. La guerra di Salvatore non era stata combattuta in nessuna trincea, era solo un uomo contrapposto alla potenza delle armi, degli eventi, divenuto poi un prigioniero dei suoi fantasmi. Un’esperienza atroce, inumana, che aveva stravolto la sua identità ma non aveva leso i suoi ricordi: il silenzio è dolore ma anche il racconto è dolore.
Come in una scena teatrale, l’andamento del racconto è determinato dal carattere dei personaggi: Matteo Tarasco è stato straordinario nello scrivere del femminile, tanto quanto dell’uomo umile senza istruzione, Salvatore, testimone della nostra storia e della ritualità di una vita priva di libertà. Consigliato!
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: La fame
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