La terra di lavoro, datato 1956, è l’ultimo degli undici poemetti di Pier Paolo Pasolini che costituiscono Le ceneri di Gramsci (1957).
Racconta il viaggio di una locomotiva che procede verso Sud: i vagoni sono occupati da povera gente che il poeta osserva con uno sguardo carico di pietà, un sentimento che tuttavia loro rifuggono.
Scopriamo testo, analisi e commento del poemetto.
La terra di lavoro di Pier Paolo Pasolini: un’analisi
L’incipit, che racchiude versi di elevata poeticità, parla di un viaggio in treno nel territorio meridionale anticamente chiamato “Liburia”, comprendente Capua e Caserta (Il dipartimento di “Terra di Lavoro” del Regno delle Due Sicilie ha avuto per capoluogo Capua fino al 1818 e poi Caserta).
Ormai è vicina la Terra di Lavoro,
qualche branco di bufale, qualche
mucchio di case tra piante di pomidoro,
[...]… Dentro, nel treno
che corre mezzo vuoto, il geloautunnale vela il triste legno,
gli stracci bagnati: se fuori
è il paradiso, qui dentro è il regnodei morti, passati da dolore
a dolore - senza averne sospetto.
Nelle panche, nei corridoi,eccoli con il mento sul petto,
con le spalle contro lo schienale,
con la bocca sopra un pezzettodi pane unto, masticando male,
miseri e scuri come cani
su un boccone rubato: e gli salese ne guardi gli occhi, le mani,
sugli zigomi un pietoso rossore,
in cui nemica gli si scopre l’anima.Ma anche chi non mangia o le sue storie
non dice al vicino attento,
se lo guardi, ti guarda con il cuorenegli occhi, quasi, con spavento,
a dirti che non ha fatto nulla
di male, che è un innocente…
Lo sguardo del poeta è attento a ogni dettaglio sulla stanca sofferenza che ignora il riscatto. Una donnetta, di Fondi o di Aversa, culla la propria creatura che dorme “nel fondo d’una vita d’agnellino”. Se si sveglia, la trastulla, dicendo parole “come il mondo nuove” e stanche “come il mondo".
La descrizione è cruda: viene paragonata a una bestia che finge d’esser morta, mentre si stringe nelle sue povere vesti; con gli occhi fissi nel vuoto, ascolta una voce: insistentemente le ricorda che “la sua povertà è una colpa”.
Poi riprende a cullare:
Cieca, sorda, / senza neanche accorgersi, sospira.
I personaggi osservati sono umiliati, delusi dalla vita, senza luce di salvezza.
Un giovane, accanto al finestrino, ha un piccolo viso scuro come torba “in un muto odore di ovile”; quasi non osa aprire la porta per non infastidire il vicino; guarda fisso la montagna, il cielo; ha le mani in tasca e il basco “malandrino” sugli occhi. Non si accorge del forestiero che gli sta accanto, non vede niente; il colletto è rialzato per il freddo o “per infido mistero di delinquente". Di cane abbandonato.
Sono personaggi ai margini della società, figure del male sociale, della vita oscura in cui domina l’inganno dello sfruttamento, vittime della vita e chiuse in sé. Di qui il verseggiare di Pasolini dal taglio narrativo coerente con la psicologia dell’osservatore.
In tutto questo c’è un mondo di amarezze e dolori. La poesia, allora, viene a essere costruita come descrizione dall’esterno, guidata da un senso di più o meno evidente “pietas” nei confronti di misere esistenze.
Il viaggio in treno ha così la dimensione interiore dell’accostamento alle sconfitte dell’esistenza:
… L’umidità ravviva i vecchi
odori del legno, unto e affumicato,mescolandoli ai nuovi, di chiassetti
freschi di strame umano.
E dai campi, ormai violetti,viene una luce che scopre anime,
non corpi, all’occhio che più crudo
della luce, ne scopre la fame,la servitù, la solitudine.
Si fanno monologo le meditazioni dell’Io poetico che ripensa a una vita di altri secoli e a questo mondo di schiavitù, dove uomini e donne appaiono “gregge /di chi nient’altro che la miseria conosca".
Ecco che il poeta si abbandona a uno sfogo, ritenendo che questo popolo senza rivolta considera nemici sia i padroni sia coloro che lottano per la sua libertà. Distanti dalle ignorate idealità, a governarli rimane il loro destino di sfruttati:
Nemico è oggi a questa donna che culla / la sua creatura, a questi neri / contadini che non sanno nulla, / chi muore perché sia salva / in altre madri, in altre creature, / la loro libertà.
Sono, insomma, i miseri e disperati condizionamenti materiali a far sì che a loro venga meno la fiducia anche nei riguardi di chi lotta contro il potere. La voce poetica mette in chiaro tutte le discrepanze, le assurdità, le rassegnazioni, rivelando i segreti del fallimento. Ritorna insistente il termine “nemico” e “nemica” che, non a caso, è anche la parola di chiusura del poemetto.
La sconfitta è in assoluto; manca l’aspirazione a qualcosa di diverso. Della Terra di lavoro si può soltanto raccontare lo stato lancinante di frustrazione con il senso di disperazione, di assenza d’ogni speranza.
la luce che piove su queste anime
è quella ancora, del vecchio meridione,
l’anima di questa terra è il vecchio fango.… Si confondono la pioggia e il sole
in una gioia ch’è forse conservata- come una scheggia dell’altra storia,
non più nostra - in fondo al cuore
di questi poveri viaggiatori:vivi, soltanto vivi, nel calore
che fa più grande della storia la vita.
Tu ti perdi nel paradiso interiore,e anche la tua pietà gli è nemica.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: "La terra di lavoro" di Pier Paolo Pasolini: analisi e commento del poemetto
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