Nella novella La trappola, pubblicata sul “Corriere della Sera” il 23 maggio 1912 e in seguito nel volume omonimo “La trappola” (1915), Luigi Pirandello privilegia una situazione dialogica che riguarda la coincidenza di vita e teatro.
Fabrizio, questo il nome del protagonista, conversa con un interlocutore anonimo.
Il respiro del narrato è quello del ragionamento nel contesto del sentimento del notturno.
“La trappola” di Luigi Pirandello: analisi e commento della novella
Difatti, sin dall’inizio il racconto evidenzia il valore della notte come alternativa rispetto alla luce del giorno.
La dimensione dei pensieri è tutta interiore, così da compensare le fatiche dell’esistenza. Ecco allora che Fabrizio, lungi dalla rassegnazione, si rivolge con finissima e arguta ironia al suo “alter ego”:
Perché avete tanta paura di svegliarvi la notte? Perché per voi la forza alle ragioni della vita viene dalla luce del giorno. Dalle illusioni della luce. Il bujo, il silenzio, vi atterriscono. E accendete la candela. Ma vi par triste, eh? triste quella luce di candela. Perché non è quella la luce che ci vuole per voi. Il sole! Il sole! Chiedete angosciosamente il sole, voialtri! Perché le illusioni non sorgono più spontanee con una luce artificiale, procacciata da voi stessi con mano tremante.
Di monologo-dialogo si può parlare dov’è assente un intreccio.
A prevalere è la confessione di pensieri da cui affiorano i nuclei tematici di tutta l’opera pirandelliana.
“Darsi una realtà” è intrappolarsi in una determinata forma, restare prigionieri di schemi rigidi e incrostarsi in essi; la vita invece è corrente vitale, energia creativa che non s’arresta: è il caos magmatico che si svolge incessantemente.
La forma finisce a esserne l’ultimo sussulto: cioè, la stasi di misera decadenza:
Ma che vuol dire, domando io, darsi una realtà, se non fissarsi in un sentimento, rapprendersi, irrigidirsi, incrostarsi in esso? E dunque, arrestare in noi il perpetuo movimento vitale, far di noi tanti piccoli e miseri stagni in attesa di putrefazione, mentre la vita è flusso continuo, incandescente e indistinto.
Da un lato, il dinamismo evolutivo fa scoprire l’assenza di un senso e l’eterno disordine, dall’altro. Siamo nel mutamento che disfa per rifare ed è da tali opposte polarità che sbocciano possibilità diverse e nuove.
L’affermazione è decisa sul bisogno di libertà antitetico alle maschere che si indossano:
La vita è il vento, la vita è il mare, la vita è il fuoco; non la terra che si incrosta e assume forma.
Cosa rappresenta la “trappola” per Pirandello?
Fissarsi in una forma equivale a morire: “ogni forma è la morte”.
È questa la trappola: staccarci dall’inarrestabile flusso vitale con la conseguenza dell’arresto del movimento e dell’irrigidimento in essa.
La trappola della morte, dunque: finisce la giovinezza, l’invecchiamento avanza e si muore lentamente. Luigi Pirandello pone nella parte finale dell’esilissima e pressoché inesistente trama il rapporto con la donna. Pensando alle “femmine belle” con le loro “forme provocanti”, ritiene che anch’esse siano “fissate” per la morte. Non c’è salvezza.
La trappola sta nella procreazione: anche il protagonista è rimasto succube di tale illusione con una donna seducente, già sposata con uno che non poteva avere figli:
Una madonnina. Timida, umile che assisteva il padre ammalato.
È l’unico nucleo narrativo in cui viene descritta, in modo conciso e grottesco, la scena dell’amplesso ingannevole:
Dunque ero al bujo. Ella entrò di là, in punta di piedi, dalla camera di mio padre, ove aveva lasciato un lumino da notte, il cui barlume si soffuse appena nella tenebra quasi senza diradarla, a traverso lo spiraglio dell’uscio. Io non la vidi; non vidi che mi veniva addosso. Forse non mi vide neanche lei. All’urto gittò un grido; finse di svenire, tra le mie braccia, sul mio petto. Chinai il viso; la mia guancia sfiorò la guancia di lei; sentii vicino l’ardore della sua bocca anelante, e...Mi riscosse, alla fine, la sua risata. Una risata diabolica. L’ho qua ancora, negli orecchi!
Rise, rise, scappando, la malvagia! Rise della trappola che mi aveva teso con la sua modestia; rise della mia ferocia; e dell’altro rise, che seppi dopo.
Un “infelice” era stato “cavato” da lui a tradimento. E lo stesso personaggio, da cinico, si compiace di non aver conosciuto la propria madre.
La visione è nichilistica, tragica: esprime l’inconsistenza maledetta di trasmettere la vita, essendo impossibile ogni evasione dalla trappola, dalla propria condizione, da sé stessi.
La consapevolezza di tale visione è, appunto, il fallimento o meglio il rifiuto di ogni schema, di ogni ruolo e credenza, nonché di ogni organizzazione sociale.
Se da un lato il sesso è fonte di soddisfacimento, dall’altro, favorendo la procreazione, farebbe venire al mondo esseri innocentemente infelici, costretti a vivere nella prigione della forma.
Fabrizio, infine, conclude il suo resoconto, invitando l’ignoto interlocutore a entrare con lui nella stanza dov’è il padre sofferente. Moribondo.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “La trappola” di Luigi Pirandello: una novella sul dissidio tra la forma e l’essere
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