Licia. Storia della prima italiana che denunciò un questore
- Autore: Marco Severini
- Genere: Storie vere
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Marsilio
- Anno di pubblicazione: 2020
Nel suo violento dies irae dei primi anni Ottanta (Io se fossi Dio, F1 Team, novembre 1981), Giorgio Gaber getta la definitiva pietra tombale sulla nazione finto-democratica, da poco orfana del martire Aldo Moro:
“…ma io se fossi Dio/ di fronte a tanta deficienza/ non avrei certo la superstizione della democrazia.”
Così declama, ed è dura dargli torto: “democrazia” è il concetto mistificatorio che la politica si è inventata per edulcorare il proprio, esclusivo, interesse di auto-perpetrarsi ai danni delle masse. Da Piazza Fontana in poi, la storia del lungo Sessantotto delle stragi di stato (declinato anche negli omicidi e nei depistaggi di stato) ne detta la comprova italiana. Per esempio: chi ha mentito sull’omicidio dell’anarchico Giuseppe Pinelli (un omicidio da questura, zeppo così di frottole di contorno) lo ha fatto certo per difendere se stesso, i metodi di interrogatorio da camicie nere, ma anche per corroborare lo zelo istituzional-poliziesco che attribuiva alla pista anarchica la bomba di Piazza Fontana. A pagina 93 del suo libro Una storia quasi soltanto mia, scrive la "vedova" Licia Pinelli:
“Io mi vedo Pino […] che si alza, l’interrogatorio è finito, sa di essere praticamente libero, sta per tornare a casa, sarà stato tutto ringalluzzito. Sicuramente parla, discute, avrà detto anche qualche battuta cattiva, con il carattere che aveva. Ecco, è qui che succede qualcosa. Probabilmente un malore […], ma forse qualcos’altro. Si può immaginare di tutto. Potrei immaginare per esempio che Pino abbia detto una battuta ironica, sfottente, ai poliziotti e che uno di loro si sia arrabbiato e – proprio davanti alla finestra – abbia cercato di dargli uno schiaffo, un colpo.”
La citazione deriva dalle pagine 38-39 del lavoro trasversale che il professore Marco Severini dedica alla persona e alla figura politica proprio della Pinelli. Si intitola Licia. Storia della prima italiana che denunciò un questore (Marsilio, 2020), e già l’intestazione rivela della tempra battagliera della donna. Il questore denunciato in oggetto era il questore Marcello Guida (deceduto nel 1990), funzionario di indubitabili trascorsi fascisti: ai tempi del “volo” del ferroviere Giuseppe Pinelli è a capo della questura di Milano, e mentendo descrive a caldo un Pinelli “fortemente indiziato di concorso in strage”, aggiungendo, come se non bastasse, “che il suo alibi era crollato” (pag. 25).
Chissà se perché l’Italia dei Settanta era piena così di ex camerati infiltrati più o meno sottotraccia nei gangli del Sistema, la denuncia per diffamazione sporta da Licia non trova alcun accoglimento giudiziario. Nessuna condanna per il questore: "il fatto non sussiste" in parole poverissime: unitamente alle archiviazioni con cui negli anni sono stati liquidati i processi sul “caso Pinelli”, ribadisce, aldilà delle retoriche, come vanno le cose nella democraticissima Repubblica Italiana.
Licia è un libro che serve da memento. La storia di una donna che incrocia la storia di una nazione passata e presente: occulta la prima, ignava e smemorata l’attuale. Attraverso il racconto oggettivo di Marco Severini – irrobustito dall’intervista alla stessa Pinelli e da estratti significativi dei giornali dell’epoca –, l’inquadratura in campo lungo dell’Italia che viene fuori restituisce un Paese miope con la coscienza sporca. Un contesto nefando sotto l’allure apparente di Belpaese, in cui la figura della signora Pinelli si staglia per contrasto con un nitore, una coerenza e una forza da paradigma, politico ed esistenziale.
“Non mi sento sconfitta perché ho fatto tutto quello che potevo fare nell’ambito della legalità. Gli sconfitti sono coloro che non hanno avuto il coraggio di arrivare a scoprire la verità. Caizzi ha parlato di ‘morte accidentale’, amati di ‘suicidio’, D’Ambrosio di ‘disgrazia plausibile’.” (pag. 48)
Altro rewind: tra la folla che partecipa commossa alle esequie di Pinelli, c’è un giovane anarchico che intende organizzare una manifestazione. Le parole che Licia gli rivolge suonano asciutte ma estremamente incisive: non fate sciocchezze, gli dice. A ben guardare, rimandano al senso più autentico del suo credo esistenziale, all’umanesimo vigile di una donna-emblema suo malgrado. Un profilo pubblico/privato che Marco Severini restituisce con adesione ideale ma senza agiografia, con l’efficacia e l’onestà dovute alle storie da tenere a mente, tramandare alla Storia.
Licia. Storia della prima italiana che denunciò un questore
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