Né il fiore né il baratro
- Autore: Giovanni Rossi
- Categoria: Poesia
- Anno di pubblicazione: 2023
Il giovane autore di questa raccolta poetica, Giovanni Rossi sembra non appartenere ai discorsi finto-sociologici di alcuni studiosi che affermano che le droghe, le più svariate, sono così pervasive, per la nuova generazione.
Ma non c’entrano col ragazzo che ha scritto questa silloge, anche se nel titolo c’è il termine “baratro” che va sempre in coppia con sostanze allucinogene; “baratro” e “tunnel” sono tra i giornalisti di cronaca nera le parole più usate, mentre cercano parole esatte per capire come scrivere l’ennesimo articolo sui giovani di oggi.
No, Giovanni Rossi sembra esente da generalizzazioni giovanilistiche, ma intanto la silloge ha il titolo Né il fiore né il baratro (ChiPiúneArt edizioni, 2023, prefazione di Angela Argentino, fotografie di Sergio Attanasio) e forse se il baratro è così lontano dai vizi dell’autore è perché la scrittura ha anche un potere salvifico.
E poi perché questo poemetto si avvita sulla parola “amore”, “tradimento”, allontanamento da tutti, da una ragazza o più ragazze che sono venuti a importunarlo impunemente. Il “baratro”, ai miei occhi in cui passa solo emozione e poco studio sull’uso delle figure retoriche, è anche perché “innamorarsi” non spiega niente sulle nostre tragedie: dal catastrofismo ambientale a persone che possono sopravvivere soltanto se fanno la stessa cosa tutti i giorni come automi, che con una parola sola ci tiene lontani da giochi di prestigio linguistico, le stesse cose fatte tutti i giorni perché si è alienati e depressi. Eppure di “alienazione” si parlava già nello scorso millennio, dal regista Antonioni allo studioso Marcuse.
Ma la disperazione di Giovanni sembra essere l’abbandono subito da parte di ragazze, amici, l’essere inchiodato da tutta questa maledetta singletudine.
Ogni cosa è maledetta / come terra vergine infeconda / maledetto il fiore / che viene dal cemento è già muore / prima dell’ape prima dell’amore, / Sei maledetta tu che cogli il fiore/ col gambo per recidermi da te / mentre ti alzi e hai valige / sulla porta del vecchio apparta / mento / che sono fuori per tre quarti / ma un quarto è ancora / dentro. / Sono maledetto anch’io/ che ti vedo uscire / ogni passo mi sala le ferite / è nuovo gorgo / pozzo di nera luce / su l’uscio del vecchio appartamen- / to. / Mentre Con te porti il sole in stra- / da / ogni cosa è maledetta. Ogni cosa è maledetta.
Il titolo delle poesie di Giovanni Rossi è posto alla fine del componimento; alcune pagine propongono le fotografie di Sergio Attanasio, che danno alle parole un senso di straniamento notevole.
La prefazione è totalmente esaustiva, la Argentino analizza anche le figure retoriche di ogni componimento, gli ossimori e tutto l’apparato che a chi scrive sembra si mettano distanze coi lettori di oggi, totalmente digiuni degli stilemi di una poesia.
Giovanni Rossi le lascia più disordinate di quanto si possa pensare, ma soprattutto comprensibili, perché una silloge “o si capisce o non è”, come una lettera scritta in una lingua non conosciuta.
C’è un dolore fortissimo in queste poesie, come se Rossi dicesse soprattutto a sé stesso se sia il caso di continuare a pubblicare versi, perché le parole sono "assassine" e colpiscono chi ti sta vicino.
Come ho già scritto, i titoli delle poesie di Giovanni Rossi sono posti al termine delle liriche. Ad esempio in Mio padre non è un sarto, gli ultimi due versi danno il tono giusto a questa silloge:
...che la tristezza è un vestito / così bisogna saperla portare.
Perché nella prefazione della Argentino si parla di disperazione, ecco le prove. Ma il poeta Rossi diluisce la mancanza di senso nella nostra vita terrena, con gli amori, sempre provvisori, che non vogliono passare l’uscio di casa, con il sesso, che però non porta con sé nessuna progettualità, diventa solo un modo per descrivere il quando e il come gli impegni dei due si incastrano.
Eppure come suggerisce il titolo, Rossi sceglie l’indeterminatezza, il procrastinare, l’indecisione. Tanti modi poi di amare più persone o di togliere le maschere, confessando di essere momentaneamente solo.
Che poi è anche una solitudine artistica: a chi scrive di poesia, a mio parere, è necessario trovare spazi di confronto.
Negli anni Settanta dello scorso millennio si faceva. Non hanno spostato montagne, ma alcuni autori di quella generazione addirittura si studiano all’università. Non si può continuare a non conoscersi, è meglio vedersi e farsi vedere.
Né il fiore né il baratro
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