Non è questo che sognavo da bambina
- Autore: Sara Canfailla e Jolanda Di Virgilio
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Garzanti
- Anno di pubblicazione: 2021
Ci sono momenti in cui la vita ti sorride, e altri per cui ti lascia sbronzare la sera prima dell’inizio di uno nuovo lavoro – anzi, di uno stage. Ci sono periodi in cui a sorriderti sono anche le tue amiche, la tua famiglia, i luoghi che conosci da sempre, e altri in cui invece ti tocca imparare a riorientarti da zero, fra atmosfere grigie e ultramoderne e persone di cui non sai mai se fidarti fino in fondo.
A provarlo per la propria pelle è Ida, la giovane protagonista del romanzo d’esordio di Sara Canfailla e Jolanda Di Virgilio, che si ritrova suo malgrado a diventare l’ennesima fuorisede nella metropoli milanese, l’ennesima precaria in un ambito lontano dalle proprie aspettative e l’ennesima coinquilina con la testa incasinata e troppi pensieri in circolo per riuscire a cavarsela senza chiudersi nel bagno dell’ufficio e piangere di nascosto.
Non è questo che sognavo da bambina, edito da Garzanti, è insomma un romanzo che denuncia alcuni degli ostacoli aspirazionali più comuni fra le nuove generazioni, senza per questo edulcorarne i tempi morti, i tentativi falliti, le transizioni complesse e perfino le azioni più ingenue, o più amare, o più a rischio. Ida, infatti, non è un’eroina senza macchia e senza paura: le ha entrambe, le macchie e le paure, e le racconta senza mezzi termini all’amica che ha lasciato a casa, la sua Gio, a cui riesce di nascosto qualche e-mail dal computer aziendale.
È con lei che si apre, come se si trattasse della sua lettrice ideale, ed è spesso attraverso la loro insolita e brillante comunicazione che ci si inizia a sentire un po’ come Ida, stretti nella propria quotidianità e in rapporti ambigui, lasciati in maniera imperdonabile da un partner o ingannati all’ultimo minuto da un collega di lavoro. Ed è a lei che immaginiamo rivolte anche le nostre difficoltà, il nostro desiderio di essere accettati, il nostro timore di non essere abbastanza, o di trovarci nel posto sbagliato.
“Lo so cosa pensi. Pensi che io stia esagerando, che non può andare così male. Credimi quando ti dico che può. E sai cosa mi fa soffrire di più? che non possiamo neanche etichettarli come stronzi, perché tra di loro sono super simpatici, super brillanti, super amici. Cioè sì, possiamo chiamar-li stronzi, ma in modo compiaciuto. Come se gli stessimo facendo un complimento. Perché la verità è che vorrei essere come loro ma non sono abbastanza stronza (cioè cool) e quindi mangio un’insalata da sola in pausa pranzo. Ecco, se te la dovessi spiegare nel loro linguaggio, i miei contenuti non stanno performando molto bene. Ho venticinque anni e faccio gli stessi discorsi di quando ne avevo quindici. L’adolescenza è una malattia da cui non si guarisce”.
Se non si guarisce, però, non sempre è per via di una qualche sindrome di Peter Pan: con più frequenza succede che ad averne la responsabilità sia un mondo del lavoro idealizzato e romanticizzato, in cui si riservano le dinamiche più distorte, malsane e manipolatorie della mentalità capitalistica contemporanea, con le sue contraddizioni e le sue mancanze, le quali inevitabilmente si riservano poi sull’anello più debole della catena, sulla Ida di turno che oltre a compiangersi si sforza di restare a galla in quel mare pieno di pesci a cui, di tanto in tanto, la sorte regala un avvenire fortunato.
Nessuna autocommiserazione, quindi, in Non è questo che sognavo da bambina, ma d’altra parte nemmeno l’ombra di una fittizia consolazione ispirata a una mastodontica e onnipotente forza di volontà à la Disney (a volte, anche se puoi sognarlo, non puoi farlo e basta): solo una Milano rigida e sommersa di regole non scritte, da imparare a proprie spese un atteggiamento stacanovista dopo l’altro, a suon di rinunce o di determinazione, di incertezze o di pulsioni impossibili da ignorare.
Passo a passo, pagina a pagina, la protagonista creata a quattro mani da due giovani donne che, come lei, lavorano o hanno lavorato nel campo della comunicazione si emancipa da se stessa, si mette in gioco, adopera strategie sempre nuove e diverse per non lasciarsi schiacciare, e si rende conto non senza una punta di amarezza del fatto che crescere non sempre significa andare incontro ai propri sogni, anche se fondamentale resta rimodularli senza soffocarli, rispettarli senza snaturarli, e avere la pazienza e la flessibilità di non vedere tutto nero là dove restano ripide e invalicabili le solite scale di grigi.
La vita non filerà mai liscia come l’olio, i tasselli del puzzle non si incastreranno in maniera impeccabile come per magia, però è negli interstizi fra l’uno e l’altro che a volte vanno ricercate le sorprese e le meraviglie dell’esistenza, oltre che nel coraggio quotidiano, nei denti stretti a lungo, nei compromessi e nella capacità di osservarsi con onestà. Ci vuole autoironia per realizzarlo, e un grande talento per trasformare questo percorso in un libro d’esordio, specialmente se concepito in due e se leggero, profondo e al tempo stesso insolito per schemi narrativi, struttura e stili.
Anzi, più di tutto, ci vogliono forse l’autenticità e l’intelligenza emotiva di Ida, e una coscienza in grado di dire “no” quando serve e di chiamare con il loro nome fenomeni come il mansplaining, i rapporti di potere, il gender gap – “in una sola parola: patriarcato, che, ricordiamoci, è sempre la parola più usata dell’anno”. Perché è solo imparando a conoscere mostri quali l’insicurezza, la solitudine, il rimpianto e la frustrazione che prima o poi si riuscirà a neutralizzarli, anche solo in parte o anche solo a tratti, e che si potrà scrivere nero su bianco, con fierezza:
“C’è vita dopo lo stage”.
Non è questo che sognavo da bambina
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