Nell’articolo Tradizione umana e tradizione divina nel Carlismo sono già stati introdotti alcuni elementi basilari del pensiero del filosofo spagnolo Francisco Elías de Tejada y Spínola (1917-1978), che è sicuramente il maggiore ideologo del Carlismo nella seconda metà del Novecento.
Il testo già pubblicato riguarda il concetto di tradizione, mentre il presente articolo cercherà di riassumere le riflessioni espresse dall’intellettuale ispanico nei confronti dell’idea di Occidente e di civiltà europea.
È una buona occasione anche per citare le traduzioni italiane di alcuni tra i libri più importanti di Elías de Tejada.
L’imperialismo moderno e la nascita del concetto di Occidente
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Negli ultimi decenni i media italiani hanno invocato spesso i concetti di “Occidente” e di “identità occidentale”, prima in contrapposizione con l’‘Oriente’ inteso come Islam, e oggi in opposizione a un Oriente che è la Russia.
Secondo il filosofo René Guénon (1886-1951), però, lo scontro tra Oriente e Occidente non rappresenta affatto la battaglia tra un presunto ‘Occidente cristiano’ e le culture orientali. L’Occidente è bensì qualcosa di diverso, ossia la modernità, la quale aspira a distruggere la Cristianità allo stesso modo in cui ambisce ad annientare il cosiddetto ‘Oriente’.
Riguardo la confusione che permea il concetto di Occidente, Guénon espose un giudizio chiaro in un testo che si intitola proprio Oriente e Occidente, edito in italiano da Adelphi:
La civiltà moderna [...] è per definizione mutevole proprio perché manca di principio.
Non c’è quindi da stupirsi se coloro che parlano di Occidente si richiamano frequentemente a immagini vaghe, che mutano a seconda degli opinionisti di turno e che nessuno pare in grado di definire univocamente:
La civiltà moderna soffre, in tutti i campi, per mancanza di princìpi; in virtù di un’anomalia che ha del prodigioso essa è, sola fra tutte, una civiltà senza princìpi, o con princìpi soltanto negativi, che è la stessa cosa.
Il termine “Occidente” iniziò a essere impiegato con un’accezione abbastanza vicina a quella attuale nel mondo anglosassone, all’epoca dell’espansione coloniale inglese, ma cominciò a essere maggiormente condiviso tra l’opinione pubblica nel continente europeo e negli Stati Uniti durante l’‘età dell’imperialismo’, quella nuova stagione coloniale che ebbe principio a partire dal 1870 e che in breve tempo pose sotto il dominio delle maggiori potenze europee gran parte del globo.
Queste conquiste ottocentesche e novecentesche si distinsero in maniera netta dalle prime espansioni di popoli europei oltreatlantico: quando gli ispanici sbarcarono nelle Americhe agirono mossi da un sentimento religioso, con il desiderio di convertire il mondo intero al Cattolicesimo, mentre all’epoca dell’imperialismo le potenze coloniali furono mosse esclusivamente dalla volontà di sfruttare economicamente i paesi assoggettati, da ragioni politiche e di prestigio nazionalistico.
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L’origine fondamentale dell’imperialismo moderno va ricercata nella necessità di acquisire il controllo diretto delle materie prime a basso costo e di creare nuovi mercati. In questa fase storica la distinzione tra Occidente e Oriente fu indispensabile per giustificare le conquiste coloniali affermando una presunta superiorità della ‘civiltà occidentale’ sul resto del pianeta.
Anche in tempi recenti Philippe Nemo, un accademico francese liberale-conservatore, ha scritto un’apologia dell’occidentalismo nel suo libro Che cos’è l’Occidente? (Rubbettino, 2009) definendo la cosiddetta ‘civiltà occidentale’ “in prima approssimazione attraverso i concetti di “Stato di diritto”, “democrazia”, “libertà intellettuali”, “razionalità critica”, “scienza”, “economia libera fondata sulla proprietà privata”. Elementi che a suo avviso la renderebbero appunto superiore a tutte le altre.
Ma anche riguardo a considerazioni simili (tutt’altro che nuove) Guénon osservava che:
la cosa forse più straordinaria è la pretesa di fare di questa civiltà anormale [l’Occidente] il modello di tutte le civiltà, di considerarla “la civiltà” per eccellenza, o addirittura la sola che meriti questo nome.
A questa illusione si accompagna la credenza nel “progresso”, considerato in modo altrettanto assoluto, e identificato naturalmente, nella sua essenza, con quello sviluppo materiale che assorbe ogni attività degli Occidentali moderni.
La definizione di imperialismo: da Dante a Lenin
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Per Lenin l’imperialismo è la “fase suprema del capitalismo”, ma va osservato che la concezione comunista del termine imperialismo – di fatto impostasi nella storiografia – scaturisce dal pervertimento del concetto tradizionale di impero. Nelle civiltà tradizionali, l’impero è una relazione di signoria sugli uomini che abitano un determinato territorio; gli Accadi, conquistatori di Sumer e della Mesopotamia, furono i primi a forgiare l’idea di impero: un sistema in cui c’è un monarca che non è anche sacerdote, ma detiene il potere militare e regna per diritto divino governando diversi popoli (l’Imperatore è il “Re dei Re”).
Dante Alighieri, nel De Monarchia, chiarisce che l’impero è il dominio universalista sulle genti:
Romano, ricordati di reggere con l’impero i popoli. Queste saranno le tue arti, dettar legge alla pace, perdonare i sottomessi e debellare i superbi.
La visione imperiale, che possiamo definire “imperialismo antinazionalista”, pone gli uomini oltre le distinzioni di nazionalità unendoli attorno a dei fondamenti spirituali più alti e condivisi. Il colonialismo della cosiddetta ‘età dell’imperialismo’ invece, non è che un super-nazionalismo senza spiritualità, ossia il contrario dell’impero.
In ogni caso, questa riflessione Lenin non poteva compierla, poiché in quanto marxista vedeva nell’economia l’unico motore della storia.
Nel suo opuscolo intitolato appunto L’imperialismo, fase suprema del capitalismo (1917), egli giunge persino a porre sullo stesso piano l’impero zarista con i domini coloniali francesi e inglesi, ignorando importanti distinzioni storiche, giuridiche e culturali.
Quando è nato il termine Occidente?
Ciò premesso, il termine Occidente ha raggiunto la sua valenza contemporanea dopo la Seconda guerra mondiale, con la separazione del mondo in due blocchi contrapposti e la ratifica del Patto atlantico nel 1949. Oggi l’Occidente si sovrappone quasi perfettamente con l’estensione della Nato e indica i paesi sottoposti all’influenza statunitense.
Vi sono però delle incoerenze in questa indicazione di origine geografica che vanno tenute in considerazione: l’Australia è a Oriente, ma rientra a pieno titolo nell’Occidente, il Marocco è più a ovest dell’Italia, ma non è considerato Occidente, Cuba e il Messico sono paesi di lingua latina e di cultura cristiana, ma non sono parte dell’Occidente. In sintesi, l’Occidente corrisponde pressapoco agli Stati Uniti e alla parte dei loro territori coloniali che essi reputano “più civile”.
Secondo Philippe Nemo l’Unione Europea e l’impero statunitense sono entrambi tentativi di rispondere a un presunto “bisogno di unità dell’Occidente”, “ma lo fanno in modo sostanzialmente errato”: “l’Unione europea sbaglia nel prospettare di allargarsi a paesi non occidentali” (secondo Nemo la Romania e la Bulgaria “non sono paesi occidentali”), mentre:
l’Impero americano sbaglia quando promuove l’unità del mondo occidentale, ma volendone assumere la leadership e considerando gli altri paesi come semplici satelliti.
Tuttavia Nemo non coglie che l’“integrazione europea” rivolta verso est avviene comunque all’ombra dell’impero statunitense ed è parte dei suoi giochi di potere. Come spiegato in precedenza, la caratterizzazione culturale non coincide con un punto cardinale, e oggi cercare di far combaciare queste due realtà parlando di un ‘Occidente’ o di una ‘civiltà occidentale’ indica l’esigenza di ridurre il campo della realtà a quello della necessità, quindi a un obiettivo pratico facilmente riconoscibile: creare un’unità di spazio.
Ma a chi è utile questa unità? È utile a chi aspira a detenerne la leadership: cioè agli Stati Uniti.
La Cristianità non fa parte della civiltà occidentale
Nel suo già citato saggio Che cos’è l’Occidente? Philippe Nemo scrive:
L’Occidente che cerco di definire non è un popolo, ma una cultura adottata nel tempo da molti popoli. Uomini di diversa origine etnica hanno preso parte a questo processo ed hanno volontariamente aderito a valori diversi da quelli condivisi dai loro gruppi d’origine.
Tuttavia chiunque può constatare come i disvalori occidentali si siano diffusi nel mondo in maniera assai poco pacifica o comunque a seguito di intense campagne propagandistiche che hanno disgregato intere comunità, privandole delle loro culture tradizionali per offrirgli in cambio consumismo, nichilismo e tendenze autodistruttive. L’espansione del cosiddetto “Occidente”, più che a un’esportazione di diritti, è simile all’estensione della minacciosa ombra inghiottitrice del Nulla descritta nel romanzo La storia infinita (1979) di Michael Ende.
Cos’è l’Occidente secondo Elías de Tejada
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Nel primo tomo della sua imponente opera Napoli Spagnola (tradotta in italiano da Controcorrente nel 1999) Elías de Tejada prende in considerazione l’Occidente solo come indicazione geografica per spiegare che in una data porzione del globo:
fino al 1500 il sistema della vita umana si gerarchizza nell’idea della Cristianità.
Lo spagnolo escluse quindi che l’Occidente in sé sia una civiltà, e nella sua relazione Conseguenze del Protestantesimo. Quadro generale della crisi protestante, tenuta il 5 novembre 1949 a Salamanca e oggi raccolta nel libro Le radici della modernità (Collana di Studi Carlisti, Solfanelli 2021), Elías de Tejada distinse la Cristianità dalla civiltà occidentale moderna dichiarando: “è necessario parlare chiaramente una volta per tutte: noi non facciamo parte dell’Occidente”. In quell’occasione collegò subito il rifiuto dell’ideologia occidentale al rifiuto della concezione di una civiltà europea.
All’Occidente Elías de Tejada contrappone la Cristianità, che non si concentra in nessun punto cardinale e unisce tutte le Patrie concrete senza annullarle.
La Cristianità in senso strettamente spirituale è la comunità dei cattolici, la Chiesa come corpo mistico di Cristo, e in senso politico-religioso – come si legge in Le radici della modernità – è:
quella costruzione prodigiosa e unica che realizzò o cercò di realizzare la città di Dio sulla terra, negli anni che vanno dall’incoronazione di Carlo Magno nell’800 fino alla distruzione del titolo imperiale all’inizio del XIX secolo.
Sembrerebbe che per il filosofo spagnolo l’ultima realizzazione politica della Cristianità si sia conclusa con la fine dell’Impero Austroungarico (3 aprile 1919), ma anche questo pensiero andrebbe approfondito, poiché durante l’Ottocento anche i fondamenti spirituali della monarchia degli Asburgo furono erosi dal liberalismo (si può rimandare alla lettura dell’ampio saggio L’Impero Asburgico. Una nuova storia di Pieter M. Judson, pubblicato in italiano da Keller nel 2021).
In Napoli spagnola Elías de Tejada spiega che la civiltà europea “nasce con particolare vigore polemico in un momento determinato”, lo spirito europeo:
è quanto nelle terre dell’Occidente [sempre intese come pura indicazione geografica] si sostituisce alla Cristianità grazie a cinque rotture successive dell’ordine cristiano del Medioevo: teologica con Lutero, etica con Machiavelli, politica con Bodin, filosofico-giuridica con le secolarizzazioni del tomismo operate da Grozio e del volontarismo da Hobbes, istituzionale con i trattati di Westfalia.
La pretesa di far coincidere l’Occidente con la Cristianità (ignorando che essa abbraccia tutti i continenti) è, pertanto, un tranello teso dai neocon ai danni dei cristiani.
Il rifiuto dello spirito europeo in Elías de Tejada
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Secondo il geografo Jacques Lévy la quintessenza dello spirito europeo è l’europeanità, ossia un insieme di caratteristiche fondate su un sostrato comune nato dalla commistione di elementi che – a suo giudizio – proverrebbero dalla civiltà greca e romana, dal Cristianesimo, dal Rinascimento e dall’Illuminismo.
Al contrario Elías de Tejada capovolge questa concatenazione, presentando la civiltà europea come il risultato di divisioni traumatiche.
Non è un caso che nei discorsi dei pensatori liberali europei dell’Ottocento figuri spesso il riferimento a una ‘civiltà europea’; gli stessi liberali vituperavano la Spagna per la sua resistenza all’‘europeizzazione e contro di essa dicevano:
L’Africa comincia dai Pirenei.
Nel pensiero di Elías de Tejada lo spirito europeo nasce da una serie di attacchi contro la Cristianità, che hanno prodotto una successione di fratture violente: una religiosa, originatasi con la rivoluzione protestante; una etica, derivante dalla lettura della realtà teorizzata da Machiavelli; una filosofico-giuridica, scaturita dalle tesi di Hobbes e infine una politico-istituzionale, generata dai Trattati di Westfalia.
Per Elías de Tejada l’Illuminismo è il coronamento delle rivoluzioni precedenti e forse l’aggressione più dura contro le civiltà tradizionali, nonché l’origine dei totalitarismi novecenteschi.
Philippe Nemo – che in definitiva identifica l’Occidente con il liberalismo – afferma che “né il fascismo né il comunismo furono realtà propriamente occidentali” poiché furono fenomeni patologici, ritorni momentanei a “istinti atavici” di gruppi mimetici e di folle tornate a comportamenti tribali”, mentre per Elías de Tejada quelle ideologie non furono altro che esiti di rivoluzioni che hanno condotto a dei binari morti e che crollando (in un modo o nell’altro) erano destinate a lasciare spazio ad altre rivoluzioni, non meno mortifere per la Cristianità.
Per Elías de Tejada l’Europa non è una civiltà, ma un continente in cui si sono sviluppate civiltà differenti: solo in un secondo momento, con una catena di rivoluzioni devastanti, il materialismo si è concretizzato come spirito europeo.
La cosiddetta ‘civiltà europea’ per Elías de Tejada non è che la “negazione della storia”, la quale nel presente si afferma con il rifiuto del passato e della tradizione in virtù dell’obiettivo di raggiungere una meta futura che è una costruzione astratta delle utopie progressiste.
Cos’è l’Europa moderna secondo Elías de Tejada
L’Europa moderna è un ordine neutrale, una macedonia eterogenea contrapposta all’unità cristiana, ed europeizzarsi, per i cattolici, equivarrebbe ad arrendersi senza lottare e rinunciare alla loro Fede e alla loro cultura. Per Elías de Tejada l’uomo spagnolo è cristiano e le Spagne sono unite dalla loro missione storica evangelizzatrice (la monarchia ispanica è missionaria). Se tutti i suoi abitanti cedessero allo ‘spirito europeo’, la Spagna non diverrebbe altro che una denominazione geografica: uno spazio neutro popolato da “spagnoli eterodossi”. Senza Fede la Spagna sarebbe un nome vuoto, senza unità religiosa perderebbe la sua ragion d’essere.
Per i tradizionalisti gli ispanici hanno trovato la loro prima unità nella lotta per la liberazione della Penisola Iberica dall’islam, la Reconquista, ma in fondo la loro missione storica è la stessa di tutti i cattolici. Gesù Cristo è colui che il Padre ha unto con lo Spirito Santo e ha costituito “Sacerdote, Profeta e Re” e l’intero popolo di Dio partecipa a queste tre funzioni del Cristo portando la responsabilità della missione e del servizio che ne derivano.
Che si condividano o meno le idee di Elías de Tejada, mettendo a confronto lo ‘spirito europeo’ ritratto da Lévy e l’Occidente definito da Nemo è impossibile non accorgersi che sono la stessa cosa. Per Elías de Tejada il disperdimento della sedicente “europeanità” nel calderone dell’Occidente non è affatto casuale: per i carlisti i popoli non sono nazioni, ma tradizioni e le differenze che li distinguono sono figlie della storia, mentre i progressisti si autodefiniscono cosmopoliti, aderiscono senza riserve all’indifferentismo culturale e religioso e conseguentemente credono nell’utopia astratta dell’uomo a-storico (che rifiuta la storia).
Secondo Elías de Tejada il concetto di ‘patria europea’ è inaccettabile: nell’analisi storica carlista la Patria è una realtà concreta, la cellula sociale naturale che si estende nei corpi intermedi e nello stato come comunità politica. Il filosofo spagnolo sostiene che il genere umano non si sia unito in gruppi per mere ragioni di sussistenza durante una fantomatica fase della preistoria, bensì che gli uomini siano animali sociali che sono sempre vissuti in comunità.
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L’Europa è invece una “patria ideologica”, cioè una costruzione artificiale che nasce attorno a un progetto politico, le cui conseguenze dirette sono l’elevazione a “buoni cittadini” di coloro che seguono l’ideologia che si vorrebbe imporre al continente (e al mondo). La patria ideologica è in realtà un partito, e chi non ne è membro non aderisce alla ‘religione civile’ imposta dall’alto e quindi non è considerato un “buon cittadino”. Seguendo il processo rivoluzionario descritto per fasi da Elías de Tejada, l’imporsi dello stato-nazione ha distrutto i popoli e ora la post-modernità mira a distruggere anche gli stati in un percorso di degradazione generale dell’uomo che corrisponde al passaggio del mondo intero sotto l’egida dell’Occidente (vale a dire l’americanizzazione del pianeta).
Potremmo quindi affermare che il mondialismo è un ‘americanismo’ e che nella grande rivoluzione terminale globalista, dietro a un presunto ‘avanzamento’ della civiltà, si nascondono le aspirazioni di dominio degli Stati Uniti.
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: La Cristianità contrapposta alla civiltà occidentale e allo spirito europeo nel pensiero di Francisco Elías de Tejada
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