Quando l’imperatore era un dio
- Autore: Julie Otsuka
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Bollati Boringhieri
- Anno di pubblicazione: 2013
“Il cartello era apparso durante la notte”. Era una giornata di sole a Berkeley in California in quella primavera del 1942 quando sui pannelli per le affissioni, sugli alberi, sullo schienale delle panchine alle fermate degli autobus e sulle vetrine appariva l’Ordine di evacuazione n.19. “Era scritto a caratteri piccoli e scuri. In certi punti minuscoli”.
Poche settimane dopo l’attacco giapponese alla base navale statunitense di Pearl Harbour nelle Haway avvenuto il 7 dicembre del ’41, il Presidente USA Franklin Delano Roosevelt aveva firmato un ordine di evacuazione (Executive Order 9066) per 117mila persone (uomini, donne e bambini) di origine giapponese, a prescindere dalla loro cittadinanza, da rinchiudere in appositi campi recintati. Una madre con i suoi due figli, una femmina di 11 anni e un maschio di 8, si preparavano a lasciare la loro abitazione, portando poche cose con loro e nessun animale. Per questo motivo la donna era stata costretta a uccidere il vecchio cane Bianco. In quella sera di aprile della quarta settimana nel quarto mese di guerra, mentre alla radio Caruso cantava La donna è mobile, una donna “che non sempre seguiva le regole, seguì le regole”, consapevole che non sapeva dove sarebbero andati né quanto tempo sarebbero rimasti via e neppure chi avrebbe vissuto in casa loro finché non fossero tornati.
Il mattino dopo la famigliola, già privata del capofamiglia che era stato arrestato il dicembre precedente dalla FBI dopo la mezzanotte e portato via in vestaglia e pantofole, si sarebbe diretta alla Stazione di Controllo dei Civili nella Prima Chiesa Congregazionale in Channing Way. Sempre insieme si sarebbero appuntati il numero identificativo sul colletto, avrebbero preso la valigia e “sarebbero saliti sull’autobus per andare dovunque dovessero andare”.
Quando l’Imperatore era un Dio (When Emperor Was Divine, titolo originale del volume) pubblicato negli Stati Uniti nel 2002 esce ora in Italia sull’onda del successo di pubblico e critica di Venivamo tutte per mare edito nel nostro Paese lo scorso anno, di cui è il seguito ideale. Quest’ultimo romanzo, inserito dal New York Times nell’elenco dei migliori libri usciti nel 2011 (vincitore del PEN/Falkner Award e finalista al National Book Award 2011), dallo stile cantato e poetico, autentico capolavoro, trae ispirazione dalle biografie degli immigranti giapponesi che arrivarono in America all’inizio del Novecento. I figli, le figlie e i nipoti di quelle donne che erano giunte in America per sposare i loro connazionali immigrati che finora avevano visto solo in fotografia, sarebbero stati collocati per circa tre anni e mezzo in campi di detenzione situati in alcune zone desertiche degli Stati Uniti, quali il Colorado, l’Utah, l’Arizona, l’Idaho, l’Arkansas e la California, chiamati traditori perché avevano lo stesso volto dei piloti dell’attacco. Per allontanare potenziali spie dalla costa occidentale centinaia di migliaia di americani di origine nipponica in due settimane persero tutto, dignità compresa.
Per questo motivo l’autrice, che ha dedicato il volume ai suoi genitori, prende come simbolo di questa tragedia a lungo taciuta, una famiglia come tante, emblema di uno dei più vergognosi episodi della storia americana. In cinque capitoli (nel primo viene narrato il punto di vista della madre, nel secondo protagonisti sono i pensieri della figlia sul treno che corre verso il campo di Topaz nell’Utah, nel terzo è il bambino che annota lo squallore delle baracche, la polvere e la sabbia rovente che ricopre tutto e sogna l’Imperatore “sacro e divino. Un dio”, nel quarto è il ritorno a casa al termine della guerra e nel quinto la straziante falsa confessione di un uomo inerme), mentre l’America cantava In the mood si compiva l’esclusione del diverso e l’odioso razzismo che un paese era stato capace di commettere nei confronti del popolo che ospitava.
“È una storia autobiografica, che mi è apparsa in modo casuale per immagini. Mi sono resa conto dopo di quanto la guerra fosse per me un argomento necessario. E non solo per me, ma anche per la mia famiglia e per tutto il mio popolo”
ha dichiarato la scrittrice di origine giapponese. Nel 1988 il governo USA ha chiesto scusa offrendo ventimila dollari come risarcimento agli internati. “Ma la memoria è importante, io scrivo per difenderla”.
Un libro di poco più di 100 pagine, intenso e delicato, dalla scrittura chiara, sincera e mai retorica ci insegna che la memoria, i ricordi non possono essere risarciti. “Adesso eravamo liberi, liberi di andare dove volevamo, quando volevamo. Non c’erano più guardie armate, riflettori, recinzioni di filo spinato”.
Quando l'imperatore era un dio
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Questo non è un romanzo corale come il precedente "Venivamo tutte per mare". O forse sì. Perché, attraverso la storia di una donna senza nome e dei suoi figli senza nome, rivivono le storie di tutte le donne, i figli, i padri giapponesi, ma residenti negli Stati Uniti, che sono stati arrestati, catturati, deportati in seguito ai fatti di Pearl Harbour, solo ed esclusivamente a causa della loro nazionalità. Una storia raccontata da frasi brevi e semplici, semplici istantanee di azioni apparentemente usuali, ma ciascuna delle quali lascia una ferita che non potrà mai rimarginarsi. Tristemente, tenacemente, con apparente rassegnazione ma in realtà con incredibile forza di sopportazione, si abbandonano i propri averi per seguire un destino deciso dai propri natali, ma sempre con la speranza di riappropriarsi di quello che si possedeva e degli affetti che ci appartenevano. Ma il rientro nella propria vita non potrà mai essere indolore, e ci si ritrova a sentirsi ospiti nella vita che una volta era la nostra...
Un’oscura e semisconosciuta pagina di storia rievocata e divulgata attraverso i sentimenti di chi l’ha vissuta.
Pochi sanno che un destino analogo subirono gli italiani (quasi tutti antifascisti) espatriati in Inghilterra che, allo scoppiare della guerra, furono internati in campi di concentramento, in genere in Australia, in quanto potenziali nemici. Una ragione di più per leggere questo bellissimo libro.
Ho letto questo libro per caso e ne sono rimasta stregata. La delicatezza struggente con la quale tratta un argomento così delicato è veramente magistrale. Credo che la scelta di non citare mai i personaggi con il loro nome sia da ricercare sicuramente nella volontà di rendere la storia il paradigma di tutte le altre ma, anche, per sottolineare la componente di spersonalizzazione che veniva ricercata nei campi di raccolta. In quanto considerati traditori della patria che via ha accolto con tanto amore non avete il diritto nemmeno ad avere un nome. Dovete limitarvi a rispettare le regole, a confessare quello che vi viene chiesto di confessare e rispondere nel modo giusto al questionario. Non a caso nei campi di sterminio tedeschi i prigionieri erano identificati con un numero. In cento pagine è riuscita a rendere palpabile e reale la paranoia e la paura dei civilissimi Stati Uniti d’America.