Radical? Shit!
- Autore: Diego Perucci e Sandro Fracasso
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2021
Ciò che segue è il frutto di liberi pensieri suscitati dalla lettura di un libro di valore, indubbiamente, come di rado si trova in giro nella folla di pubblicazioni e di scrittori spesso sedicenti. Di letteratura seria ce n’è poca (come diceva Terry May per l’arte) e come scrive Sandro Fracasso “siamo nella curva più ripida della discesa”. Purtroppo lo penso anch’io, fatte le dovute eccezioni.
Radical? Shit! (Scatole Parlanti, 2021) è un romanzo insolito, un contenitore che non contiene una vera e propria storia e che non ha un finale, che non soddisfa le classiche aspettative di intreccio, sviluppo e svelamento. Che però intriga e incuriosisce.
Diego Perucci e Sandro Fracasso, gli autori Retroguardisti senesi definiti da Augusto Davide Lanzetti “vanitosi e permalosi”, sono di sicuro anche molto competenti, direi scaltri, letterariamente smaliziati, giocano con i lettori, cospirano alle loro spalle e, più o meno consapevolmente, si divertono a confonderli, spiazzarli, fanno loro credere di aver capito per poi riportarli sul terreno delle incertezze, dei dubbi. Agitano le acque e per farlo usano l’ambiguità, per esempio con i continui cambiamenti delle voci narranti, ma soprattutto con la contraffazione.
La contraffazione è la precisa cifra stilistica che connota il libro. A cominciare da quell’ Augusto Davide frutto maturo della Retroguardia senese, l’auriga tentacolare la cui nota critica apre il romanzo e con autorevolezza lo introduce. Ebbene sì, questa nota appare talmente credibile da indurre gli editori a richiedere agli autori una liberatoria con tanto di firma autografa. Sembra invece non si tratti di persona, ma di personaggio, creato a tavolino in un precedente inganno, in una beffa, in un gioco degli equivoci. Per ridere, io credo, insieme a chi a quello scherzo partecipa, o per lasciarlo beatamente ignaro.
Certo è che la Nota critica, come la Nota finale degli autori, non aiutano la lettura, anzi la complicano. Forse lo scopo è quello di far intendere anche al lettore meno avvertito il substrato denso di cultura letteraria, e non solo, i rimandi colti, il solco illustre di un genere letterario abbastanza raro ma tracciato? Il rischio è che in tal modo qualcuno si intimorisca, ma è anche vero che Augusto Davide Lanzetti ci avverte che quello che stiamo per leggere è un romanzo distopico, sulle orme di Orwell, di Bradbury o delle opere di Kubrick. In effetti nel mondo di Gaetano Filindi e di Glauco Orsi non ci vorremmo mai vivere. Tale chiave di lettura è importante ai fini della comprensione del senso della storia e dei personaggi principali. O forse è sufficiente stare al gioco?
Ma torniamo alla contraffazione: le famose lettere senesi che, stando alle parole di Diego durante una presentazione del libro, sono vere e reali, scritte nel tempo da persone in carne e ossa (Didico - Diego, Roberto, Arnolfo, Giulio, Elio, Zappa, insomma coloro che “mandano avanti gli altri scemi”), non hanno tra di loro fili conduttori, non c’entrano niente con la storia e in tal modo creano, insieme a qualche disorientamento per chi legge, quell’alone di mistero e incomprensibilità necessari a reggere il gioco di chi vi ricerca tracce di cellule d’azione e complotti organizzati, cospiratori e associazioni di ex militari assassini.
Certo è che la chiusura della Nota degli autori, laddove sembrano estrapolare finalmente una delle poche verità del libro, ovvero “lo spazio come sintesi del tempo”, non si percepisce come la rivelazione di chissà quale mistero fino all’ultima riga indagato dal lettore e finalmente svelato.
Si riferiscono, chiedo a Diego e a Sandro, alla relatività generale? Alle quattro dimensioni, tre spaziali e una temporale che insieme costituiscono il palcoscenico dove si svolgono i fenomeni fisici? Alludono agli spostamenti geografici del protagonista che tornato a Brescia dopo anni viaggia a ritroso nel tempo fino a trovare una verità diversa e inaspettata, un’autentica sorpresa?
Che sia una bella chiusura è però indubitabile. Un po’ a effetto ma degna della storia, ultimo colpo all’altezza del gioco di straniamento, o alienazione, magistralmente condotto dai due scrittori ai “danni” del lettore.
Come il vetusto monaco bulgaro rammentato da Augusto Davide Lanzetti nella Nota Critica. Hai voglia a pensare, a cercare in rete. Trattasi di episodio conosciuto dagli autori, o da uno dei due, fatto assolutamente personale e privato. Come fa il lettore a comprendere il significato dello strike mancato per un soffio? Ma il paragone piaceva agli autori, quindi perché evitarlo? Fa colore, inizia alla lettura, abitua a non arrendersi allo stupimento. Insomma fa parte del gioco, un gioco che, traspare chiaramente, deve aver divertito davvero tanto i nostri colti e spregiudicati scrittori.
La trama e i personaggi
In realtà la trama c’è, sarà un pretesto come spesso accade in letteratura, ma c’è e non è neppure troppo difficile seguirla. La qualità del romanzo è nella lingua, colta, ricercata e démodé, nella forma, nella maniera. Scanzonata quanto basta. La trama offre poi agli autori l’occasione di disseminare qua e là dichiarazioni e affermazioni che sono autentiche perle. Non le trascrivo, vanno cercate, anzi trovate, ognuno le sue e alcune per tutti.
Gaetano Filindi, dalla vita “noiosa, sicura e prevedibile”, arriva presto alla seguente conclusione:
“Se mio padre è un uomo e mia madre una donna, io non sono né l’uno né l’altro”.
Quanti Filindi ci sono nel mondo, quante vite abortite?
Se gli illustri antecedenti letterari di Gaetano sono gli inetti di Svevo, di Pirandello o di Moravia oppure di Villaggio o di Tabucchi, va detto che Filindi si distingue per tenacia e perseveranza: più che subirli, gli eventi e il flusso della vita, se ne difende, li allontana. Filindi è la quintessenza dell’evitante, sempre inadeguato.
Classificato scientificamente tra i disturbi psicologici della personalità, l’evitante trova il suo opposto nel padre psicotico, o in Glauco Orsi, il lottatore che getta la spugna in balia di incomprensibili accadimenti. Siamo alle soglie del Novecento, nel pieno di quello shock della modernità causato da Joyce, Freud, Bergson, Einstein. L’inizio della fine dopo il secolo positivista, nell’assoluto relativismo della vita umana. Un bell’esempio di mancanza di certezze, questo libro, privo di sponde cui aggrapparsi: scritto nel 2020, nel pieno del primo eroico lockdown, si definisce non a caso “ancorato al Novecento”, il secolo breve che finisce (T.S. Eliot) "non con il rumore di un’esplosione, ma con un fastidioso piagnisteo” che insiste a continuare, “come fosse motivo di vanto”.
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