Roman! Breve elogio del romanzo in terra di Francia
- Autore: Andrea Vannicelli
- Genere: Arte, Teatro e Spettacolo
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2022
Andrea Vannicelli, docente nei Licei, titolare di lingua e letteratura francese, dopo la laurea in Francesistica si è specializzato in letteratura comparata, con il il dottorato preso all’università di Lovanio, in Belgio.
Ha scritto e pubblicato saggi e articoli su riviste specializzate in ambito accademico. Invece, ora, collabora con vari periodici, soprattutto Studi Cattolici. Per i tipi di GOG edizioni, nel 2017, ha già affrontato la narrativa, i saggi e le poesie francesi, pubblicando uno scritto dal titolo Il tramonto dei Lumi. Storia della letteratura francese da Chateaubriand a Houellebecq.
Vannicelli crede che il romanzo francese sia più solido di quello italiano, anche se anche a oltralpe negli anni Sessanta del secolo scorso c’era stata una profonda crisi col romanzo tradizionale attraverso il Nouveau Roman dello scrittore Alain Robbe-Grillet, nominare le cose senza che abbiano necessariamente una base logica.
O una trama riconoscibile o lo svolgersi di una storia. Ma, mentre in Italia tuttora si dice che il “romanzo è morto”, l’autore parte dall’Ottocento per parlare degli scrittori francesi. E che nomi!
Si parte con la nascita del romanzo con Honoré de Balzac, l’immaginifico e la sua opera monumentale La Comédie Humaine (la Commedia Umana scelta per contrapporla alla Divina Commedia di Dante), nel merito, ogni evento ne causa un altra, la nascita della trama, la nascita della borghesia cittadina, piena di segreti e bugie, l’aristocrazia che vive di debito e viene dileggiata dall’autore, il potere del danaro che muove il mondo, come per il tirannico Grandet (Èugenie Grandet, 1833), l’amore possessivo verso le figlie del pastaio Goriot (Pére Goriot, 1834). Nel suo Illusioni perdute si parla chiaramente di una borghesia avida e cinica che coi matrimoni si prende anche le cariche aristocratiche.
L’immenso Balzac col suo pessimismo assoluto.
Poi c’è il romanziere sentimentale e avventuriero Henri Beyle che si faceva chiamare Stendhal, nato nel 1783, a Grenoble in nella buona borghesia benestante, che perse la madre a sette anni, visse col padre bigotto e chiuso, per partire giovanissimo con l’esercito napoleonico. Visse anche in Italia come impiegato dell’amministrazione imperiale e morì piuttosto giovane, nel 1842, a Parigi. Il suo capolavoro è sicuramente La Certosa di Parma.
Chi scrive, lesse questo libro a sedici anni decidendo di diventare un lettore e giammai uno scrittore senza talento, avendo preso in simpatia Fabrizio del Dongo.
A Stendhal interessa ben poco la dimensione sociale, così come la grammatica francese. Scrive tanto di fretta, lasciando errori, refusi, svarioni di tutti i tipi, che chi scrive pensava che scrivere in modo così sciatto a volte fosse una virtù e non un impedimento e, in ogni caso, nelle varie traduzioni italiane si mise una "pezza" al suo scritto che non badava a nessuno stile. Forse proprio per questo La Certosa di Parma fu un romanzo amatissimo dai lettori, specialmente dalle lettrici e non si contano i vari film che lo prendono alla lettera o si ispirano solo all’atmosfera.
C’è da dire che sia Balzac che Stendhal avevano un amore assoluto per le gesta e la vita di Napoleone. Poi arrivò il libro che lo scrivente ha letto dieci volte e più, trovandolo un capolavoro assoluto, bellissimo, Madame Bovary, del 1856, dove Gustave Flaubert rilancia il realismo. Nemmeno ci penso a scrivere la trama, anche chi non l’ha letto o lo ha trovato immorale e licenzioso o solo noioso sa chi è Emma Bovary, non fosse altro per il tormentone su cui si esagerò molto sulla frase di Flaubert:
Emma Bovary c’est moi.
Rispetto a Stendhal, Flaubert quasi si ammalò, per dare stile, scrittura, una trama ben congegnata al romanzo.
Si narra che abbia riscritto almeno venti volte ogni singola pagina del libro tanto, che alla fine, esausto e ricordato solo per questo romanzo, Flaubert prese a odiarlo, scrivendo che Emma non era certo lui, ma una donna con la testa piena di romanzetti rosa, una borghese che spendeva un patrimonio per i suoi vestiti e per i soldi che dava agli amanti che furono parecchi. Lui aveva badato solo allo stile, perché solo la forma è importante e non il contenuto.
Uguale sorte toccò a Victor Hugo con Les Misérables (I Miserabili, del 1862), che in ogni caso è una delle opere maggiori dell’Ottocento letterario europeo. Ora si direbbe de I Miserabili come di un long seller. Nelle serate parigine, senza televisione né altro, leggere il libro era un momento che si aspettava per tutto il giorno. Chi non ricorda Valjean o la storia d’amore tra Marius e Cosette?
E qui emerge la voce dell’autore, Andrea Vannicelli, che scrive:
Oltre ai principi dell’Illuminismo, per capire la grande costruzione spirituale dell’Europa oltre alla tolleranza, alla ragione e alla democrazia, non possiamo fare a meno di parlare anche di passione, bellezza, senso del sacro, senso della natura, dimensione cosmica dell’essere, tutti valori cui furono i poeti per primi a dare voce.
Poi, in modo un po’ troppo sintetico scrive dei romanzi del Novecento, che hanno perso le caratteristiche del romanzo classico. Dall’amatissimo Marcel Proust, al Nobel Patrick Modiano, tornando indietro con Albert Camus, Jean-Paul Sartre e all’ultimo Nobel della francese Annie Ernaux.
Cosa è rimasto in Francia del romanzo dopo Proust e i romanzi di Madame Ernaux?
Sono diventato altro, hanno preso spunto dalla psicologia del profondo o alla scrittura secca e asciutta e stilisticamente perfetta della Ernaux, che ha un debito di riconoscenza verso Marguerite Duras, scrittrice che non cita più nessuno.
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