Al via la seconda prova della Maturità 2023. Gli studenti del Liceo Classico stamattina si devono cimentare con un testo di latino Chi è saggio non segue il volgo, tratto dalle Lettere a Lucilio di Seneca.
Le Epistulae ad Lucilium sono una raccolta di 124 lettere suddivise in 20 libri, scritte da Lucio Anneo Seneca negli ultimi mesi di vita. Nell’epistola scelta per l’analisi Seneca dimostra all’amico Lucilio come la filosofia possa guidare l’uomo alla virtù.
I tre quesiti posti agli studenti del Liceo Classico nella seconda parte della prova sono i seguenti:
- 1. Comprensione e interpretazione: Seneca oppone nel testo due modelli di vita, quello del volgo e quello del saggio. Illustra questa contrapposizione con opportuni riferimenti al testo
- 2. Analisi linguistica e stilistica: mostra attraverso il passo proposto le caratteristiche dello stile o del modo di argomentare tipici di Seneca.
- 3. Approfondimento e riflessioni personali: nel testo Seneca oppone il saggio che si dedica all’otium al volgo che insegue onori e ambizioni. Rifletti su questa tematica, riferendoti a quanto studiato o al tuo sguardo sul mondo.
Scopriamo testo, analisi e commento della traccia.
“Chi è saggio non teme il volgo” di Seneca: testo
Non est per se magistra innocentiae solitudo nec frugalitatem docent rura, sed ubi testis ac spectator abscessit, vitia subsidunt, quorum monstrari et conspici fructus est. Quis eam, quam nulli ostenderet, induit purpuram? Quis posuit secretam in auro dapem? Quis sub alicuius arboris rusticae proiectus umbra luxuriae suae pompam solus explicuit? Nemo oculis suis lautus est, ne paucorum quidem aut familiarium, sed apparatum vitiorum suorum pro modo turbae spectantis expandit.
Ita est: inritamentum est omnium in quae insanimus admirator et conscius. Ne concupiscamus efficies si ne ostendamus effeceris. Ambitio et luxuria et inpotentia scaenam desiderant: sanabis ista si absconderis. Itaque si in medio urbium fremitu conlocati sumus, stet ad latus monitor et contra laudatores ingentium patrimoniorum laudet parvo divitem et usu opes metientem. Contra illos qui gratiam ac potentiam attollunt otium ipse suspiciat traditum litteris et animum ab externis ad sua reversum.
“Chi è saggio non teme il volgo” di Seneca: traduzione
La solitudine non è di per sé maestra di onestà né la campagna di frugalità; però, quando il testimone e lo spettatore se sono andati, cessano i vizi, che si beano di essere ostentati e osservati. Chi indossa vesti di porpora per non esibirle? Chi mette le vivande in stoviglie d’oro solo per se stesso? Davvero uno dispiega lo sfarzo del suo lusso, sdraiato in solitudine, all’ombra di un albero nei campi? Nessuno sfoggia per il piacere dei suoi occhi o di poca gente o degli amici, ma sciorina l’apparato dei suoi vizi secondo la folla che lo guarda. È proprio così: la spinta verso tutto quello per cui diamo segni di follia è la presenza di un ammiratore e di un testimone. Spegni il desiderio, se togli la possibilità di ostentazione. L’ambizione, lo sfarzo, la sfrenatezza, vogliono il palcoscenico: se li tieni nascosti, ne guarirai.
E così, se ci troviamo in mezzo al frastuono delle città, ci stia a fianco uno che ci consigli, e alla lode di ingenti patrimoni opponga la lode di chi è ricco con poco e misura le ricchezze dall’uso che ne fa. Contro coloro che esaltano il favore della massa e il potere, lui sottolinei con ammirazione l’esistenza ritirata dedita agli studi e l’anima che si ripiega su se stessa.
“Le Lettere a Lucilio” di Seneca
Le Lettere a Lucilio furono scritte da Seneca tra il 62 e il 65 a.C. negli anni di disimpegno politico del filosofo. Il destinatario delle epistole è il poeta e scrittore Lucilio Iniore, all’epoca governatore della Sicilia. Gli storici hanno messo in dubbio che tutte le lettere siano state effettivamente inviate da Seneca all’amico, tuttavia c’è la certezza che alcune siano state oggetto di uno scambio realmente avvenuto, in quanto il filosofo sollecita, in chiusura, la risposta di Lucilio.
In queste epistolae filosofiche l’autore condensa i precetti della filosofia stoica, facendo di ogni testo una sorta di insegnamento morale, ne risulta una struttura peculiare che dà all’intero epistolario la forma di un trattato filosofico. Ogni lettera si fa quindi veicolo di un preciso insegnamento pedagogico in una sorta di processo di formazione spirituale che ha come obiettivo finale il perfezionamento morale del singolo.
In queste lettere Seneca riprende alcune tematiche espresse negli scritti precedenti, tra i quali ricordiamo il De Brevitate Vitae e il De Vita Beata. Il filo conduttore è sempre offerto dal ragionamento del saggio, inteso come maestro di virtù, ovvero colui che attraverso la conoscenza riesce a seguire la retta via e condurre una vita onesta.
Il saggio, secondo Seneca, è colui che riesce a distaccarsi dal moto alterno delle passioni, del piacere e del dolore, affermando il primato della propria coscienza.
L’insegnamento che Seneca dà all’amico Lucilio è “vindica te tibi”, ovvero “riprenditi te stesso”, contenuto al principio della raccolta. Si tratta di un’implicita esortazione in cui il filosofo sprona l’amico ad avere cura di sé stesso e, soprattutto, del tempo breve della sua vita in modo da non sprecarlo in occupazioni vane.
In questa espressione troviamo un velato rimando al “carpe diem” oraziano che rammentava appunto di “afferrare la giornata sperando il meno possibile nel domani”.
Il tema del tempo è uno degli argomenti chiave delle Lettere, infatti l’autore ricorda all’amico:
Niente ci appartiene, Lucilio, solo il tempo è nostro. La natura ci ha reso padroni di questo solo bene, fuggevole e labile: chiunque voglia può privarcene.
Una delle massime ripetute da Seneca è che il filosofo “è colui che agisce” e quindi dimostra la propria virtù con l’azione. Ed è proprio questa esortazione ad agire ciò che attraversa le epoche rendendo l’opera dell’autore romano ancora attuale: ora che Lucilio siamo tutti noi, lettori, troviamo in queste parole un prezioso insegnamento di vita che mantiene viva più che mai la sua contemporaneità.
“Chi è saggio non teme il volgo di Seneca”: analisi stilistica
In questa epistola Seneca svolge il suo ragionamento attraverso frasi brevi ed essenziali che sembrano dare luogo a delle vere e proprie “sentenze”, capaci di colpire il lettore con la precisa esattezza di un’illuminazione. A differenza di Cicerone, Seneca procede per paratassi sostituendo al periodare articolato delle frasi scarne e incalzanti; in questo testo si può tuttavia notare una certa abbondanza di proposizioni consecutive che tendono a svolgere il ragionamento e di proposizioni avversative (introdotte da “sed”) che esprimono l’antitesi e dunque articolano il ragionamento opposto in una continua dinamica di confronto.
Si può osservare inoltre che Seneca tende a ribadire lo stesso concetto più volte tramite dei parallelismi, oppure riportando vari exempla per sostenere la tesi di apertura della lettera. La prima parte dell’Epistola presenta un certo numero di interrogative dirette introdotte da quis, cui l’autore darà risposta nel procedere della sua argomentazione. Il contrasto tra tesi e antitesi è fondamentale, in quanto rappresenta il costrutto su cui si regge l’intero discorso, in questo caso l’opposizione tra otium e negotium.
“Chi è saggio non teme il volgo di Seneca”: comprensione
Secondo Seneca l’otium del filosofo è visto come una forma superiore di negotium. Ancora una volta il filosofo cerca di conciliare il contrasto tra vita attiva e vita contemplativa, ma avvertiamo - soprattutto nel finale - la sua preferenza a favore dell’otium, ovvero della vita contemplativa distante dai pubblici affari e dell’attività politica cittadina: l’ozio del saggio secondo Seneca è positivo perché arrecherebbe molti più vantaggi all’umanità di quanto farebbe il suo impegno nella vita politica. Ne deriva che l’otium del filosofo è in realtà un’inattività solo apparente, quindi Seneca esalta l’esistenza ritirata dedita agli studi e alla contemplazione.
Questo viene ricordato anche in un’opera fondamentale dell’autore latino, il De Otio, l’ottavo libro dei Dialoghi composto nel 62 a.C. quando Seneca decide di congedarsi dalla vita politica. In quest’opera, dedicata all’amico filosofo Sereno, l’autore citava come esempi virtuosi alcuni importanti filosofi stoici quali Cleante, Crisippo e Zenone.
I filosofi, secondo l’autore, hanno un pubblico più ampio degli uomini politici, poiché si rivolgono all’intera umanità di tutte le epoche e hanno quindi un compito preciso da assolvere nei confronti delle generazioni a venire. Lo dimostrano del resto le stesse Epistolae morales ad Lucilium che ancora oggi leggiamo con vivo interesse, trovandovi delle corrispondenze con il nostro presente.
“Chi è saggio non teme il volgo di Seneca”: commento
La lettera proposta in analisi alla prova di maturità 2023 è la XICV delle Epistolae Morales ad Lucilium e si focalizza su un assunto fondamentale: cercare il favore della folla non porta felicità. Seneca invita l’amico a riflettere su quanta differenza ci sia tra la vita che un uomo conduce in pubblico e l’esistenza da lui condotta nel privato. Le voci del volgo e gli stolti giudizi spesso screditano il saggio, come era accaduto a Socrate e a Catone - entrambi esempi virtuosi ricordati dal filosofo nel De Vita Beata. Seneca diffida della turba, della folla intesa appunto in senso dispregiativo, perché la collettività è pervasa da uno spirito di “branco” che nuoce al singolo.
Tra le sue raccomandazioni a Lucilio, presenti già sin dalla “Prima lettera” dell’epistolario, troviamo:
Vuoi sapere che cosa ritengo tu debba evitare? La folla.
Per spiegare meglio la sua raccomandazione Seneca si riferisce a sé stesso portando un esempio di vita quotidiana: dichiara che, lui per primo, raramente ritorna a casa avendo lo stesso stato d’animo con cui era uscito; qualcosa nei suoi piani, nei suoi pensieri a contatto con la folla è irrimediabilmente cambiato poiché “nociva è la compagnia di molti”. Afferma di tornare a casa più avido e più bramoso di piaceri proprio per l’essere stato a lungo in compagnia degli uomini.
Riporta poi l’esempio degli spettacoli circensi per mostrare la follia della folla che si sazia di esibizioni in cui viene fatto scorrere sangue umano e gli uomini vengono letteralmente “dati in pasto ai leoni”. La folla si fa quindi riflesso specchiante delle peggiori pulsioni umane: un desiderio di violenza, una voglia insaziabile di scenari sanguinari. Non è certamente un caso che siano sempre le folle, come da tradizione, a condannare a morte un uomo e, in seguito, a bearsi dell’atroce spettacolo di una decapitazione o di un rogo.
Ora, in questa epistola XICV portata in analisi, Seneca riprende il medesimo leitmotiv invitando tuttavia Lucilio a “non temere la folla”, poiché la solitudine non conduce alla virtù, ma ricorda all’amico di spegnere ogni desiderio di ostentazione ed esibizionismo. Il vero saggio non conosce l’ambizione, perché non ne ha bisogno, così come non deve esporsi sul palcoscenico e le luci della ribalta. L’uomo virtuoso, secondo Seneca, non ricerca a ogni costo il favore chiassoso dei suoi simili, ma si ritira in disparte negli studi e nella contemplazione che favorisce il raccoglimento dell’anima.
Questo tema naturalmente è solo uno dei tanti trattati da Seneca nelle Epistolae, ma condensa alcuni dei precetti cruciali, tra i quali ritorna l’importanza della libertà individuale (la cosiddetta autarkeia, l’autosufficienza interiore) che il filosofo riconosce come un fine difficile da raggiungere, ma essenziale per una vita pienamente vissuta.
Come spiegato nell’Epistola, Seneca non vuole delineare la figura del “saggio eremita” che vive distante dalla comunità e in fuga dai suoi simili, ma preservare l’autonomia individuale dell’uomo che per lui rappresenta il bene supremo ed è continuamente messa in discussione dalla tirannia della folla, capace di sconvolgere l’equilibrio spirituale del singolo.
L’ideale dell’autarkeia fu incarnato da Seneca, soprattutto nei suoi ultimi giorni di vita. Il filosofo infatti obbedì ai propri precetti spirituali, affrontando la morte a testa alta, senza timore. Come sappiamo dalla testimonianza di Tacito negli Annales, Seneca fu spinto al suicidio proprio dal princeps che aveva allevato secondo i precetti del trattato De Clementia (56 a.C.), Nerone. Fu proprio il terribile imperatore, cui Seneca aveva fatto da precettore, a condannarlo a morte: Nerone accusò il filosofo di aver aderito alla Congiura dei Pisoni, ordita contro di lui, e lo spinse al suicidio facendo cadere sulla sua persona l’onta del tradimento.
Seneca, obbedendo ai propri precetti filosofici, decise quindi di togliersi la vita pubblicamente tagliandosi le vene di braccia e gambe.
Come riporta Tacito negli Annales:
Seneca, impavido, chiese che gli portassero le tavole del testamento e, poiché il centurione rifiutò, si volse agli amici dichiarando che, dal momento che gli si impediva di dimostrare la sua gratitudine, lasciava a loro la sola cosa che possedeva e la più bella, l’esempio della sua vita.
Ecco dunque che ritorna l’ideale stoico dell’autarkeia, ovvero dell’indipendenza e dell’autonomia dell’animo. L’esempio della vita del filosofo romano si è conservato intatto nei suoi scritti, in particolare nelle Epistolae Morales ad Lucilium, che possono essere lette come il suo testamento spirituale in quanto condensano il suo pensiero e la sua virtù.
Recensione del libro
Lettere a Lucilio
di Lucio Anneo Seneca
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Seconda prova Maturità Liceo Classico: “Lettere a Lucilio” di Seneca
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