Sepolti vivi. Monte Cimone e una mina. Un destino crudele
- Autore: Alberto Di Gilio
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2021
Si poteva morire in tanti modi nella Grande Guerra, oltre un secolo fa, specialmente in azione, all’assalto delle linee avversarie o a difesa delle proprie. Nessuno era però ingrato come perire nelle trincee sulle vette fatte saltare in aria dal nemico, con un’esplosione dal di sotto. Il veneto Alberto Di Gilio ricostruisce quella che hanno chiamata guerra di mine, sul fronte italiano, attraverso un episodio nelle Prealpi vicentine. Lo ha fatto in un saggio storico breve, molto ben curato nei testi e nella grafica, in cui risaltano l’intensità e la sensibilità dell’autore, oltre alla perfetta conoscenza dell’argomento.
Sepolti vivi. Monte Cimone e una mina. Un destino crudele è stato pubblicato a marzo dell’anno scorso da Gino Rossato Editore (Valdagno-Vicenza, 2021, 112 pagine), illustrato con foto riprodotte in modo eccellente sulla carta di pregio e in gran parte inedite, provenienti da cinque archivi privati e dalla raccolta dell’autore.
Un modo di morire in guerra ancora più disperato degli altri, se si può. Se non uccisi sul colpo dall’esplosione sotto le cime, i soldati restavano sepolti vivi dalla ricaduta di pietre, terriccio e macerie sollevate in grandissima quantità dalla deflagrazione. Era però una guerra di “pura disperazione” da parte dei Comandi che l’attuavano, perché nasceva da un’ammissione di debolezza, visti vani il fuoco d’artiglieria e lo slancio delle truppe all’attacco.
La guerra di mine è un corollario della guerra di posizione, un portato delle difficoltà previste per occupare un arroccamento nemico particolarmente imprendibile, considerati anche i costi in termini di vite umane e materiali. Dalle linee opposte, si presero a scavare cunicoli nella roccia sotto vette e postazioni. Servivano a raggiungere un punto indicato dagli ingegneri e realizzarvi una camera di scoppio, da riempire di esplosivo ad alto potenziale e far brillare per demolire le cime e le difese soprastanti.
Guerra di talpe, da una parte e dall’altra, perché i lavori sotterranei producevano rumori inconfondibili per il nemico, che s’impegnava a neutralizzare l’insidia. Scavava a sua volta gallerie e camere di scoppio sotto quelle avversarie, cercando febbrilmente di arrivare in anticipo nella corsa al brillamento.
I difensori, in alto, non potevano che attendere impotenti il momento fatale. Certo, i comandanti rarefacevano il presidio al minimo indispensabile, ma lasciavano pur sempre dei reparti condannati a restare sul posto dalla disciplina militare. Sul Cimone era in atto peraltro un avvicendamento di truppe, quindi era esposto un numero doppio di vittime.
Mine sono state scavate e fatte saltare su tutti i fronti. Epiche quelle britanniche nelle Fiandre, dove il terreno argilloso rendeva le opere più agevoli. Su quello italo-austriaco furono trentaquattro in totale nel 1915-18, venti delle quali da parte italiana. Lasciarono tutte tracce, sottolinea l’autore, tanto nei luoghi (le cime risultarono più basse dopo le esplosioni e modificate orograficamente) che nella coscienza e nella memoria di protagonisti e testimoni. È quasi direttamente dalla loro voce, oltre che da documenti d’archivio, che Di Gilio ricostruisce l’evento nel Vicentino, che ha voluto rendere esemplare dell’intera guerra di mine, guardando al complesso di quegli episodi.
Monte Cimone di Tonezza, 1330 metri sul livello del mare, 1226 dopo l’esplosione all’alba del 23 settembre 1916.
Il 23 luglio precedente, una delle sanguinose azioni offensive aveva consentito ai fanti e alpini italiani di occupare e tenere la sommità del rilievo prealpino. Da parte austriaca si disperò di riconquistarla con un contrattacco convenzionale e si optò per la mina.
Due mesi esatti dopo, un paio di distinte esplosioni ravvicinate fecero brillare 14.200 kg di dinamite e altri esplosivi, offrendo uno spettacolo spettrale alle truppe imperiali scattate all’assalto a tre minuti dalle esplosioni. Dal terreno sconvolto affioravano materiali d’ogni genere, pezzi di tavole e brandelli di muro, grovigli di filo spinato, fucili contorti, scudi d’acciaio divelti, resti anneriti di cadaveri, soldati orribilmente feriti. Si udivano le grida d’aiuto dei sepolti.
Lo scoppio e i tentativi italiani di riprendere la cima, protratti senza risultato fino al 28 settembre, costarono al nostro Esercito 61 morti, 321 feriti e 755 dispersi. Ben 263 caduti sono rimasti sepolti per sempre sotto i detriti e il sacrario costruito sulla vetta alla fine degli anni Trenta.
Nel complesso, il bilancio della guerra di mine può essere considerato del tutto fallimentare. Aspettative grandemente sopravvalutate sprecarono innanzitutto vite umane, ma anche energie ed esplosivi, molto oltre il necessario. Si poteva considerare indubbiamente un mezzo relativamente comodo per evitare l’assalto, ma lasciava in mano ai conquistatori guglie di scarso valore bellico e pochi metri quadrati di suolo sconvolto.
Alberto Di Gilio è nato a Parma e vive a Vigonza (PD). Laureato in legge e avvocato, lavora presso la Regione Veneto. Unisce alla passione per il primo conflitto mondiale un’assidua attività di ricerca documentale nei maggiori Musei, Biblioteche e Archivi storici italiani. Ha vinto il premio letterario nazionale "Generale Amedeo De Cia" di Belluno, sui temi della prima guerra mondiale. Vanta all’attivo numerose opere e ha tenuto conferenze in Italia e all’estero, partecipato a convegni, oltre ad avere scritto articoli per riviste specializzate e curato mostre ed eventi. Suoi contributi integrano la raccolta documentaristica sulla Grande Guerra del quotidiano la Repubblica, a cura del giornalista e scrittore Paolo Rumiz.
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