Sfida per il Pacifico. La battaglia di Guadalcanal
- Autore: Robert Leckie
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Straniera
- Anno di pubblicazione: 2021
Seconda guerra mondiale, Pacifico meridionale, un’isola dell’arcipelago delle Salomone al centro del conflitto e punto di svolta della sfida mortale dell’impero del Sol Levante agli Stati Uniti. Il vero momento in cui la marea giapponese in Oriente cominciò a regredire senza più tornare a crescere: è la tesi di Robert Leckie in Sfida per il Pacifico. La battaglia di Guadalcanal. Pubblicato in prima edizione americana nel 1965, trasforma in fiction l’esperienza dell’autore nei combattimenti ed è accessibile nuovamente ai lettori italiani nella veste delle edizioni milanesi Res Gestae (2021, 486 pagine).
Un’operazione bellica decisiva per la storia mondiale resa in modo intrigante da un protagonista dei combattimenti, nei primi tre mesi dopo lo sbarco, mitragliere nella I Divisione Marines. Un esempio concreto e molto leggibile delle emozioni e delle sensazioni degli uomini che vissero quella fase determinante per l’intero conflitto.
Gli Stati Uniti impegnarono ingenti forze aeronavali per appoggiare lo sbarco nell’isola, dove il nemico stava costruendo un aeroporto che avrebbe consentito all’aviazione giapponese di minacciare l’Australia nord-orientale. I comandi nipponici reagirono risolutamente, scatenando masse di fanteria e forti contingenti navali e aerei nel tentativo di respingere l’offensiva americana.
Reduce con onore dalla guerra nel Pacifico tra i fanti di Marina - nato nel 1920 a Philadelphia, dov’è morto il 24 dicembre 2001 - Lekie riprese alla fine del conflitto la carriera di giornalista e da scrittore vanta una consistente produzione editoriale. Fonti americane gli attribuiscono più di settanta titoli, tra narrativa di guerra e testi di storia militare. Oltre al lavoro su Guadalcanal, ha scritto Helmet for my Pillow, romanzo del 1957 dal quale è stata tratta l’ottima serie televisiva HBO “The Pacific”, prodotta da Steven Spielberg e Tom Hanks.
Il racconto del giovane marine è basato sull’emotività. Del resto, Guadalcanal “non è un nome ma uno stato d’animo”, ha sostenuto uno storico statunitense. Per Leckie evocava il vapore putrescente nella giungla, i morsi acuti della fame, il gonfiore doloroso delle gambe immerse nell’acqua, il banzai urlato dai giapponesi negli assalti notturni, le battaglie di terra, in mare e nell’aria per decidere se sarebbe stato il Giappone o l’America a tenere una pista sconquassata stretta al centro di 4mila chilometri quadrati invasi per il 93% da foreste malariche.
Quegli scontri hanno deciso il futuro, molto più della fatidica battaglia aeronavale di Midway del giugno precedente, due mesi prima dello sbarco del 7 agosto 1942 nelle Salomone (si lottò fino al 9 gennaio 1943). Lo scotto del 4 giugno 1942 non arrestò infatti l’iniziativa del Sol Levante nel teatro orientale del conflitto, pur avendo inferto un duro colpo all’orgoglio giapponese con l’affondamento di quattro portaerei della Marina nipponica e riportato in parità l’equilibrio delle forze, compromesso dalla drammatica sorpresa di domenica 7 dicembre 1941 a Pearl Harbour, a danno della US Navy. Guadalcanal, invece, ha rappresentato l’inizio della fine per la macchina militare del Tenno. Gli Americani passarono costantemente all’offensiva e i Giapponesi si preoccuparono solo di difendersi.
Fu anche la tomba dell’aviazione col sole rosso sulle ali e sulla fusoliera: l’aver perso più di 800 aerei, con 2362 piloti tra i più esperti e uomini d’equipaggio, aprì un vuoto incolmabile nella linea di volo e tra il personale. Un drammatico segnale di svolta per i fino ad allora invincibili aviatori nipponici: non erano più i padroni del Pacifico con i migliori caccia del mondo. Anche la Marina subì un’ulteriore pesante battuta d’arresto: 24 unità affondate, per un dislocamento complessivo di 134.389 tonnellate, solo poco più delle 24 navi perse dagli Alleati (126.240 tonnellate), ma le industrie giapponesi, carenti di materie prime, non erano in grado di sostituire le perdite di quella forza navale, come riusciva a fare il nemico. Il colosso produttivo USA vantava una capacità industriale impressionante, ben chiara all’ammiraglio Yamamoto già prima di Pearl Harbour.
Quanto alle perdite in uomini, i caduti delle Forze Armate dell’imperatore hanno toccato probabilmente quota 50mila, dieci volte più del totale dei morti americani, che pure viene considerato drammaticamente consistente.
La guerra nel Pacifico, che prima dei combattimenti feroci nelle giungle delle Salomone aveva mantenuto la direzione Sud, prese a risalire verso Nord, puntando progressivamente al cuore del Giappone. Gli Americani non conobbero più sconfitte. Caddero anche i miti dell’inarrestabilità dei soldati giapponesi e dell’imbattibilità dei caccia Zero. La diffusione dell’impiego dei radar da parte statunitense, favorendo l’avvistamento a distanza e la direzione radiogonometrica delle artiglierie navali dette alle Marine alleate un vantaggio incolmabile. Ai nomi degli ammiragli nipponici, il Nagumo dell’azione contro le Haway e l’idolatrato Isoroku Yamamoto, si sostituirono cognomi americani, come Halsey e Nimitz.
Tramontò il progetto di Tokyo di fortificare una catena di isole imprendibili, a difesa delle aree conquistate in Oriente: cozzando invano gli Americani si sarebbero stancati e avrebbero negoziato una pace favorevole al Giappone. Ma le isole caddero una dopo l’altra - con il “salto della rana”, che ne scavalcava alcune - e gli Americani pagarono un prezzo alto, ma non si stancarono affatto.
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