Transito
- Autore: Aixa De la Cruz
- Genere: Storie vere
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2021
Transito: passare da uno stato all’altro in un continuo movimento. Cambiando pensieri e posizione. Modificando il fuori e il dentro. Trasformandosi in altro da sé. Movimento modulare: dal punto A che diventa punto B, sino a arrivare la C.
Un sostantivo dalle molte declinazioni, che diventa titolo adatto al testo della scrittrice ispanico basca Aixa De la Cruz, Cambiar de idea, usato nella traduzione italiana, curata da Matteo Lefévre per Giulio Perrone editore (2021), per proporre il testo al pubblico di lettori italiano.
Transito è uno scrigno pulsante, frenetico, potente e prepotente di nemmeno 130 pagine, capace di racchiudere le molte declinazioni che il sostantivo ha in sé. Riesce a essere premonitore e riassuntivo dell’immagine viva e vitale del mondo di una giovane donna alle prese con la vita, la sua scoperta, le sue accettazioni e le mediazioni non sempre facili.
Aixa De la Cruz (donna protagonista e scrittrice) non è altro da sé nei capitoli di cui è composto il testo. Con orgoglio lo afferma, dando a ogni “atto della sua vita” raccontato i parametri di quel racconto che non è solo tra sé e sé, ma tra sé e il fuori, gli altri.
Nel raccontare gli episodi dei suoi primi trent’anni, Aixa si “sbatte” in prima pagina, come una notizia di cronaca vera. Senza veli. Con coraggio. Si offre al lettore nelle sue debolezze e scabrosità. Nelle violenze subite (fisiche e psicologiche) che non l’hanno risparmiata. Con ingordigia di essere letta. Come orgoglio della sua sempre mantenuta identità. Come in una seduta psicanalitica, l’empatia tra protagonista e lettore arriva con il dialogo, che è ascolto silente da parte di quest’ultimo verso il secondo. Senza mediazioni identificative, ricercate o necessarie.
Aixa De la Cruz non lascia nulla al caso. Poco al non detto. Niente al pensato o al frainteso. Sul piatto della bilancia narrativa imperante protagonista è l’autoanalisi del dolore: che taglia e ferisce.
Che si cicatrizza (forse), lasciando ferite che sanno (spesso) di presa di coscienza e accettazione, mai di arrendevolezza di chi alza le mani e (debole) accetta. Senza reagire o comprendere, senza lottare e cambiare, senza capire e dialogare con chi ha compiuto l’atto, mosso l’accusa, alzando la mano per colpire.
La forza di raccontare come io narrante è scelta voluta e inevitabile. Per lasciare una traccia diversa. Per sottolineare una esigenza non solo di “messa in ordine di cartelle e appunti sparsi”, ma per recuperare il coraggio di leggere sfiorare fino a toccare quella ferita che è dolore e avvolge in toto lo spirito dell’autrice.
Un dolore che ha due vie per essere compreso: dimenticandolo, accantonato nella parte più nascosta del proprio io, oppure osservandolo con lo scopo di essere raccontato. Non per essere “a monito” o “ad esempio”, ma per diventare traccia di una vita, a sua comprensione e forse vittoria.
Così facendo Aixa non soccombe. Fa propria la forza vitale che cresce in lei, che è vera e propria indipendenza dalle sue paure e debolezze. Mai arrendevolezza che segue quel debole climax storico e/o di genere.
Il vissuto dà lezione e diventa segno netto nell’anima. Sfregio, come gli squarci su tela di Fontana. Rosso come la vergatura di copertina dell’edizione italiana. Monito per chi prende in mano il libro.
Ma anche pertugio per osservare in silenzio. Per entrare di soppiatto. E che avverte: attento, queste pagine sono vita vera. Parlano senza filtri, forse più di altre che hai già letto.
Qui la vita pulsa. Ancora reagisce e respira. Ancora vuole il suo alito di difesa. Un alito che trasborda da ogni pagina. Con la focosità caparbia, spumeggiante, strabordante tutta ispanico basca di De la Cruz e delle molte città della Spagna contemporanea (e non solo) dove l’autrice ha vissuto.
Una Spagna alle prese con contraddizioni politiche (di Podemos) e sociali (forte è il richiamo al #metoo) dove il femminismo non si arrende e non abbassa mai la guardia. L’autofiction che ne scaturisce trova nel lettore un riverbero speculare e silenzioso. Le parole sono scritte, mai recitate. Non c’è vergogna di ciò che si è subito, pensato, fatto.
L’autrice è ragazza spavalda, adolescente in fuga e invincibile donna che lotta per la sua femmi-libertà che la fa donna intrigante. Mai ammagliatrice. Decisa e chiara. Comprensiva dei suoi limiti e di quelle sfaccettature che l’hanno resa a tratti buia.
Nella ricerca del suo io univoco, poliedrico mai sottomesso l’urlo è netto: Sono viva. Esisto. Sono io.
In una presa di coscienza che nasconde una necessità di tenerezza avulsa da ogni suo atto, che è calore umano, che è carezza. Libera e consapevole di se stessa, percepisce un bisogno che è reale: scrivere. Scrivere che diventa necessario, ma per lasciare traccia. A sé stessa e, magari agli altri.
Qui la letteratura si fa “terapeutica” per l’autrice spagnola, capace di veicolare il dolore, la violenza in “quel nome che è l’essere e l’esistere. Poiché non siamo altro che il nostro nome”.
Che solo ci appartiene e ci identifica, e che dà una certezza che:
“Sei qui, in questo mondo, per te. Accarezza questa idea, che sa di carne, come la libertà”.
Sapore vero di quell’essere umano, che vaga tra le tenebre e il crepuscolo. Nella dannata ricerca di quella luce che ostinatamente tutti chiamiamo vita.
Transito
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