Un’ambigua leggenda. Cinema italiano e Grande Guerra
- Autore: Giaime Alonge
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: il Mulino
- Anno di pubblicazione: 2020
“Gli italiani non si battono”, uno stereotipo militare che ci ha accompagnato dalla Disfida di Barletta alle missioni internazionali di pace ben condotte all’estero dal 1980. “Gli italiani non servono a niente su questo fronte” è il presupposto di un saggio di Giaime Alonge, docente di storia del cinema nell’Università di Torino, sulle rappresentazioni registiche della guerra 1915-18 e sull’immagine di quel conflitto rappresentata sui grandi schermi, dal 1914 a oggi: Un’ambigua leggenda. Cinema italiano e Grande Guerra (il Mulino, 2020).
Secondo un luogo comune, difficile da cancellare, il nostro combattente italiano sarebbe stato affetto da un’irrimediabile inefficienza e la classe dirigente non altro che una cricca di intriganti voltagabbana. È nato dalle due guerre mondiali, radicandosi sul substrato già negativo delle sconfitte del periodo risorgimentale (Novara nel 1849, Lissa e Custoza nel 1866) e dall’avvio della nostra avventura coloniale (Adua, 1896). In precedenza, invece, gli italiani avevano contato sul prestigio planetario del leggendario Giuseppe Garibaldi e, prima ancora, sul buon nome guerresco del principe Eugenio di Savoia (1663-1736), condottiero delle armate degli Asburgo.
È stata la Grande Guerra, con l’abbandono iniziale della Triplice Alleanza e la rotta di Caporetto, a minare il prestigio internazionale assicurato alla tradizione militare sabauda dall’assedio di Torino (1706) e dalla battaglia della Cernaia in Crimea (1855). Molti militari e giornalisti stranieri esaltarono la buona prova del nostro esercito sul Piave, ma ebbe gioco facile il paradigma del soldato italiano imbelle e disposto alla fuga. Il tutto aggravato dai pessimi episodi della seconda guerra mondiale, con il cambio di campo a metà conflitto, l’8 settembre 1943.
Fatto sta, fa notare Alonge, che lo stereotipo offensivo è “largamente condiviso dagli stessi italiani, che amano denigrarsi in generale (la commedia all’italiana è tutta costruita su questo tratto della nostra psicologia) e in particolare si denigrano in quanto soldati”. Noi stessi dimentichiamo che dopo Caporetto c’è stata la riscossa di Vittorio Veneto e che di Caporetto ne hanno avute tutti gli eserciti nel 1914-18, perfino più d’una.
Nel cinema, fino ai primi anni del dopoguerra la nostra produzione in relazione al conflitto è stata in linea con quella degli altri grandi Paesi coinvolti. Anzi, si distinguono alcuni film che, in forme indirette e forse involontarie, raccontano la modernità della prima guerra mondiale come nessun’altra pellicola europea o americana del periodo. Ma dai primi anni Venti la nostra cinematografia ha imboccato una via autarchica, senza risultati interessanti. E quello fascista, negli anni Trenta, non si è riconosciuto nella koinè “pacifista” della cinematografia internazionale, da Westfront (1930) di Pabst a La grande illusione (Jean Renoir, 1937). Ma se questo è comprensibile in pieno Ventennio, visto che si tratta di pellicole incompatibili con la visione muscolare mussoliniana, lo è meno nei quindici anni successivi al 1945.
L’Italia ha rinviato a lungo l’incontro con la lingua comune del cinema sulla Grande Guerra, rappresentata come strage di uomini scatenati contro uomini, in attacchi inutili. È rimasta fuori dal coro, fino all’uscita sugli schermi del capolavoro La grande guerra di Mario Monicelli (1959) e soprattutto di Uomini contro di Francesco Rosi (1970), pellicole sulle quali Alonge si sofferma ampiamente.
Dopo la grande prova registica di Monicelli, che ha guidato Gassman, Sordi, Mangano e altri ottimi attori in un film che rientra pur sempre nella commedia all’italiana, è stato Rosi a riconnettere il nostro cinema al linguaggio del warfilm internazionale. La stessa scelta di adattare uno dei testi più efficaci della memorialistica della Grande Guerra italiana (Un anno sull’Altipiano, il resoconto dell’esperienza al fronte dell’allora ufficiale e poi politico azionista Emilio Lussu) lo ricongiunge al pensare comune dei registi del cinema mondiale, che avevano privilegiato un rapporto stretto con la letteratura. Westfront era tratto dal romanzo Quattro fanti (Vier von der Infanterie) di Ernst Johannsen. All’ovest niente di nuovo, il capolavoro di Millestone del 1930, si ispirava strettamente a Niente di nuovo sul fronte occidentale, amaro bestseller di Erich Maria Remarque, apparso nel 1929, che narra le vicende di un soldato tedesco sul fronte francese.
Per Rosi, adattare Un anno sull’altipiano ha significato, consapevolmente o meno, ricucire uno strappo durato quarant’anni.
La curiosità è che anche “gli italiani non servono a niente su questo fronte (“The Russians and Italians weren’t any good on this front”) è una citazione tratta dalla letteratura. È l’opinione di un personaggio di Scott Fitzgerald sul campo di battaglia della Somme, in Tenera è la notte. Il pregiudizio negativo soggettivo associa i russi, anche loro considerati moralmente inadatti al conflitto, ma è ugualmente immeritato e soprattutto arbitrario, malgrado la nostra stessa tendenza a screditarci, visto che nel 1918 i fanti italiani schierati nelle trincee francesi di Bligny non scapparono affatto davanti ai tedeschi. Tra loro c’era il poeta Ungaretti, allora soldato.
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