La ragione di Pasolini affonda le radici nella forza della tradizione che è memoria del passato e con essa egli si identifica prepotentemente.
Non a caso “Io sono la forza del Passato”: è un verso della poesia 10 giugno (1962), inserita nella raccolta Poesia in forma di rosa (1964).
Il componimento esprime il rifiuto del presente borghese-capitalistico al quale è amorevolmente contrapposto il valore della tradizione.
Si potrebbe pensare a una poesia-denuncia per la perduta bellezza, segno di un deserto culturale.
L’avanzata di un disordinato progresso volto al mero profitto ha frantumato luoghi ricchi d’arte e di storia. Non solo è stato violentato il paesaggio, ma anche le identità sono state derubate della loro ricchezza fino a raggiungere un mostruoso livellamento. Ineludibile un sentimento di orfanità: da qui la reazione all’abbrutimento del vuoto con la ricerca di tracce gloriose.
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Il poeta, “come un cane senza padrone”, così girovaga per cose e luoghi antichi: i ruderi, le chiese, le pale d’altare, i borghi contadini ormai inabitati sugli Appennini o le Prealpi, dove sono vissuti “fratelli” dediti all’agricoltura: tra una carestia, una guerra o un padrone prepotente.
Come un pazzo si ritrova sulla via Tuscolana, girovaga per l’Appia e vede attorno maschere d’una modernità impazzita, nonché uniformi palazzoni tali da sembrare alveari. Leggendo i suggestivi versi, viene in mente il brano di un articolo su “Vie Nuove” del 22 novembre 1962, intitolato Risposta a un insoddisfatto:
Per amare questa tradizione occorre un grande amore per la vita. La borghesia non ama la vita: la possiede. E ciò implica cinismo, volgarità, mancanza reale di rispetto per una tradizione intesa come tradizione di privilegio e di blasone. Il marxismo, nel fatto stesso di essere critico e rivoluzionario, implica amore per la vita, e con questo, la revisione rigenerante, energica, amorosa della storia dell’uomo, del suo passato.
Era il periodo in cui avanzavano le ricerche antropologiche e si scopriva la ricchezza del folclore delle classi subalterne mentre si poneva in discussione la società autoritaria e paternalistica.
Pasolini non resta indifferente agli abusi del potere; sferza “il borghesuccio scuro” facile preda dell’egoismo e non si rassegna alla vita del “Dopostoria”.
Le eredità che la memoria tutela sono incancellabili; attraggono in modo seducente e vanno vissute per contrastare l’indifferenza, la brutale distruzione del paesaggio cementificato, manipolato e appiattito.
“10 giugno” di Pasolini: testo della poesia
Un solo rudere, sogno di un arco,
di una volta romana o romanica,
in un prato dove schiumeggia un sole
il cui calore è calmo come un mare:
lì ridotto, il rudere è senza amore. Uso
e liturgia, ora profondamente estinti,
vivono nel suo stile – e nel sole
per chi ne comprenda presenza e poesia.
Fai pochi passi, e sei sull’Appia
o sulla Tuscolana: lì tutto è vita,
per tutti. Anzi, meglio è complice
di quella vita, chi stile e storia
non ne sa. I suoi significati
si scambiano nella sordida pace
indifferenza e violenza. Migliaia,
migliaia di persone, pulcinella
d’una modernità di fuoco, nel sole
il cui significato è anch’esso in atto,
si incrociano pullulando scure
sugli accecanti marciapiedi, contro
l’Ina-Case sprofondate nel cielo.
Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l’Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io assisto, per privilegio d’anagrafe,
dall’orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno di ogni moderno
a cercare fratelli che non sono più.
“10 giugno” di Pasolini: analisi della poesia
La memoria si intreccia con il rimpianto d’un passato ormai definitivamente finito e insieme fanno percepire la dimensione più vitale della cultura d’appartenenza: nutrimento essenziale per coloro che ne sanno comprendere “presenza” e “poesia”.
Nasce da qui la “forza”, generata dal respirare un’energia che giunge da lontano. Pasolini, nutrendosi d’antiche radici, ne rivede riti e gesti e ossimoricamente si percepisce come “feto adulto” col privilegio d’una modernità che non rigetta il passato.
Contempla crepuscoli e albe dal margine di qualche civiltà sepolta e va in cerca dei “fratelli” non più in vita. Un modo, questo, di fare poesia per la scoperta di linguaggi alternativi, di segni e significati, nonché di nuove identità riguardanti le creazioni umane, indispensabili a rivitalizzare il presente per un futuro più umano. Il componimento, recitato da Orson Welles in un accorato monologo del lungometraggio Ricotta (1963), si annoda in definitiva all’archetipo della “Grande madre” quale sintesi di passione e cura, di rigenerazione e sacralità mitologica nella memoria dell’umanità.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “10 giugno” di Pier Paolo Pasolini: una poesia-denuncia contro la “pazza modernità”
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