La lirica “A mio padre” di Alfonso Gatto (1909-1976) fa parte della raccolta “Il capo sulla neve”. Si tratta di un libretto pubblicato nel 1947 per le Edizioni Milano Sera che raccoglie 20 poesie di argomento resistenziale composte a partire dal 1943. Questo mini corpus nel 1966 venne accorpato insieme ad altri testi nel volume intitolato “La storia delle vittime”, terzo dell’edizione Arnoldo Mondadori dell’intera opera poetica di Gatto.
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“Il capo sulla neve” dà voce ad angoscia, orrore, speranze che accompagnarono la lotta di liberazione sullo sfondo di una Milano sepolta dalla neve nei due inverni gelidi del 1944 e del 1945. La città meneghina assurge a simbolo di morte e dolore collettivo, perché la tragedia di guerra non risparmia nessuno.
Rispetto ad altre liriche dedicate alla figura genitoriale, “A mio padre” presenta la specificità di intrecciare l’evocazione intimistica con lo scenario resistenziale.
In occasione della Festa del Papà, riscopriamo testo, analisi della poesia e qualche informazione sul suo autore, per chi non lo conoscesse.
“A mio padre”: testo della poesia
Se mi tornassi questa sera accanto
lungo la via dove scende l’ombra
azzurra già che sembra primavera,
per dirti quanto è buio il mondo e come
ai nostri sogni in libertà s’accenda
di speranze di poveri di cielo,
io troverei un pianto da bambino
e gli occhi aperti di sorriso, neri
neri come le rondini del mare.
Mi basterebbe che tu fossi vivo,
un uomo vivo col tuo cuore è un sogno.
Ora alla terra è un’ombra la memoria
della tua voce che diceva ai figli:
“Com’è bella la notte e com’è buona
ad amarci così con l’aria in piena
fin dentro al sonno”. Tu vedevi il mondo
nel novilunio sporgere a quel cielo,
gli uomini incamminati verso l’alba.
Analisi e significato della poesia
Nella prima strofa, composta da 9 endecasillabi sciolti, il poeta esprime il desiderio irrealizzabile di camminare accanto al padre in un paesaggio serale scandito dalla metafora dominante dell’ombra e della luce. In particolare al crepuscolo quando l’ombra, cominciando a tingersi di azzurro, diventa meno scura a segnalare che le giornate si stanno allungando in prossimità della primavera. Va da sé che il buio del mondo allude alla tragedia della guerra, al trionfo del male, dell’odio, della violenza. Se il padre fosse con lui, l’autore riuscirebbe a piangere con gli occhi di chi non ha perso la speranza. Con una similitudine originale gli occhi sono neri come le rondini di mare o sterna comune.
La seconda strofa, composta da nove versi endecasillabi, è dedicata all’augurio, altrettanto irrealizzabile di condividere nella casa avita momenti con il padre avvezzo a rivolgere ai familiari parole rasserenanti, come la natura circostante.
In breve la rievocazione del padre scomparso nel 1936 assume la forma di un dialogo impossibile: il figlio vorrebbe metterlo al corrente della tragedia della guerra, una tragedia nella quale tuttavia non è possibile spegnere il sogno di libertà e il riscatto degli oppressi. Tanto che il componimento si apre col termine sera e si chiude con la parola alba. Al dialogo immaginario fa da specchio la natura edenica dell’infanzia.
L’intero componimento è costruito su coppie oppositive che rinviano allo scontro tra bene e male, libertà e oppressione, pace e guerra.
Chi era Alfonso Gatto
Alfonso Gatto nacque nel 1909 a Salerno, proveniente da una famiglia di marinai e di piccoli armatori. Si iscrisse alla facoltà di Lettere e Filosofia di Napoli, ma non arrivò mai a conseguire la laurea. Fin da giovanissimo si dedicò alla poesia tanto che la sua prima raccolta in versi fu pubblicata nel 1939. Il 1934 segna una svolta cruciale perché andò a Milano in cerca di fortuna dove svolse mille mestieri. Qui scontò alcuni mesi nel carcere di San Vittore per cospirazione in quanto militante comunista. Trasferitosi a Firenze diresse per due anni insieme a Vasco Pratolini la rivista Campo di Marte, quartier generale dell’esperienza ermetica fiorentina. Intanto l’editore Guanda di Modena gli pubblica il secondo libro di poesie intitolato “Morto ai paesi” che lo consacra come una delle voci più rappresentative della sua generazione. Torna a Milano per dedicarsi più attivamente alla lotta antifascista. Nell’immediato secondo dopoguerra fu redattore dell’Unità e di altre testate comuniste, ma si distaccò dal partito nel 1951. Fu pittore, critico d’arte e di letteratura. Fu anche attore per Pasolini, Rosi, Monicelli. Continuò l’attività giornalistica come inviato speciale e gli ultimi vent’anni della sua vita li visse a Roma. Morì ad Orbetello in provincia di Grosseto in seguito a un incidente stradale. Ebbe una vita intensa, conobbe la miseria e il successo, e un’attitudine al nomadismo che sfruttò come inviato speciale in Europa. Malgrado l’amore per Milano che fece sua, Salerno rimase il suo centro di gravità ricordata con nostalgia in numerose liriche.
Alfonso Gatto, come dimostra questa lirica, oltrepassa l’ermetismo fondendo l’autobiografia a temi civilmente impegnati.
Alfonso Gatto e il cinema
Alfonso Gatto recitò nei film:
- “Caro Michele” di Monicelli nel ’76 come padre di Michele;
- “Vangelo secondo Matteo” di Pasolini del ’64 nella parte dell’apostolo Andrea;
- “Teorema” sempre di Pasolini del 1968 fa il medico,
- “Nel sole sorge ancora” di Aldo Vergano del 1946 fa il conduttore di treni.
- L’ultima interpretazione è quella in “Cadaveri eccellenti” di Rosi del 1976. Qualcuno li chiamerebbe camei ma, come dice il detto, non esistono piccole parti, esistono piccoli attori. Alfonso Gatto aveva il dono di bucare lo schermo.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “A mio padre”: la poesia di Alfonso Gatto per il padre che non c’è più
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