Con la poesia A volte dico: tentiamo d’esser gioiosi la magia della parola di Cristina Campo segna un’ulteriore tappa in quel giovanile percorso interiore che rievoca un amore impossibile e canta la lontananza e la separazione, ma anche l’inquietudine di una tormentata ricerca interiore.
A volte dico: tentiamo d’esser gioiosi è infatti il quinto degli undici componimenti di Passo d’addio, la raccolta pubblicata nel dicembre del 1956 da Vanni Scheiwiller, dove sono presentati i testi poetici scritti nei due anni precedenti, poi confluiti in La Tigre Assenza.
Già il titolo della plaquette introduce la dimensione dell’allontanamento: il passo d’addio è quello che una ballerina danza poco prima di lasciare la sua scuola, quello che segna la conclusione di un capitolo della sua esistenza, la distanza da una costellazione affettiva ed esistenziale.
In tutta la silloge poetica Cristina Campo declina il tema dell’addio, muove da occasioni e immagini tangibili nella loro concretezza, all’interno delle quali cala le diverse sfumature di un sofferto commiato da un amore deluso.
Se si guarda all’intera opera dell’autrice, però, Passo d’addio è anche il primo atto di un percorso di purificazione morale che saluta la leggerezza e la passionalità della gioventù e si volge all’interiorità. La ricerca della perfezione formale, l’attenzione estrema al significato profondo della parola diventano spie di un cammino di perfezionamento interiore che, sulla scorta di Simone Weil che Campo aveva tradotto giovanissima, assumerà col passare del tempo una decisa connotazione spirituale.
A volte dico: tentiamo d’esser gioiosi canta l’addio alle illusioni: dopo i ricordi del passato Cristina Campo vuole distanziarsi anche dalle speranze riposte nel futuro, che nella loro falsità si rivelano magre consolazioni.
Vediamo insieme testo, analisi e spiegazione.
"A volte dico: tentiamo d’esser gioiosi": il testo
A volte dico: tentiamo d’esser gioiosi,
e mi appare discrezione la mia,
tanto scavata è ormai la deserta misura
cui fu promesso il grano.A volte dico: tentiamo d’esser gravi,
non sia mai detto che zampilli per me
sangue di vitello grasso:
ed ancora mi appare discrezione la mia.Ma senza fallo a chi così ricolma
d’ipotesi il deserto,
d’immagini l’oscura notte, anima mia,
a costui sarà detto: avesti la tua mercede.
Significato e analisi di "A volte dico: tentiamo d’esser gioiosi" di Cristina Campo
Se nelle liriche precedenti (Ora che capovolta è la clessidra e È rimasta laggiù, calda, la vita) la scrittrice salutava con voce nostalgica gli amici, le esperienze, i paesaggi di un passato – probabilmente la stagione dell’adolescenza e della prima giovinezza, trascorsa a Firenze – che non è più, qui Campo, constatato che non ci si può affidare ai ricordi, allontana da sé anche le fatue possibilità tratteggiate da un’immaginazione ingannevole.
La prima e la seconda strofa, a una prima lettura collegate, contrappongono la gioia e la gravità, due sentimenti diversi, accomunati però dal fatto che non si danno spontaneamente ma sono, per l’autrice, il prodotto di uno sforzo della volontà (“tentiamo”).
L’intento di essere gioiosi è una risposta, moderata ma illusoria, alla solitudine che denota emotivamente il commiato: “deserta misura” è parola usata nel suo significato più concreto, come annotò la stessa Campo: “come si direbbe staio” (un’unità di misura arcaica), un’immagine concreta – quella del contenitore rimasto vuoto, scavato fino in fondo perché privato del grano – che diventa metafora di un amore rivelatosi impossibile.
Allo stesso modo la severità è l’atteggiamento prudente e cauto, ma altrettanto vano, di chi rifiuta lo sfarzo, di chi trova ormai fuori luogo l’esuberanza della ricchezza, della festa, ma anche della passionalità. Il rosso del sangue si contrappone qui al bianco che compare insistentemente in altri componimenti della raccolta.
Le prime due strofe sono però finalizzate all’amara sentenza che ci consegna la parte finale del componimento: non è più tempo di baloccarsi con i sogni, con quelle carezze che che ci sfiorano nel sonno, durante la notte oscura, la consolazione che ci offre il sogno è sostanzialmente ingiusta se teniamo presente il monito - “non si deve «sognare»” - che l’autrice dispensa nelle Lettere a Mita, all’amica Margherita Pieracci.
Nel tempo del commiato non c’è più posto per le illusioni (“immagini”), nella solitudine dell’addio non c’è più spazio per la speranza (“ipotesi”) ma solo per la disillusione.
L’addio si consuma nel deserto e porta con sé il vuoto, l’isolamento; Cristina Campo non solo lo accetta, ma sceglie di viverlo coraggiosamente, senza ricorrere a falsi entusiasmi o a composte rinunce, avviandosi su quel faticoso sentiero che, dopo aver annullato e superato la propria individualità, l’avvicinerà alla dimensione mistica del divino.
Sembrano riecheggiare le parole del Canto notturno per le ragazze fiorentine di Mario Luzi:
“Dalla terra volano via gli eventi, le dolci passioni
escono dai corpi spenti,
la povertà le illusioni,
i sorrisi profondi delle umane consolazioni”
come a fare da controcanto a quell’amore impossibile, del quale era il probabile destinatario.
“A volte dico: tentiamo d’esser gioiosi”: analisi metrica e stilistica della poesia
Il componimento consta di tre quartine di versi liberi dove si alternano endecasillabi e ottonari.
Come nel caso di Moriremo lontani, le forme dei verbi rivelano una netta prevalenza del presente, un tempo commentativo che denota la volontà di coinvolgere il lettore, di interloquire con lui e di destare la sua attenzione, al fine di mostrargli che la sua personale e faticosa approssimazione al divino, seppur intima, poteva essere alla portata di tutti.
L’avverbio “ormai” (v. 3) riconduce a un tempo presente dove si realizza un capovolgimento decisivo, un mutamento esistenziale: nel caso specifico di A volte dico: tentiamo d’esser gioiosi è il momento del disinganno, dove si diventa consapevoli della pochezza delle nostre illusioni consolatorie.
L’elevata frequenza dei pronomi me, mi, mia (vv. 2, 6, 8, 11) denota che, a quest’altezza di Passo d’addio, la poetessa ha già abbandonato l’interlocuzione con la figura amata (come ancora avveniva in Moriremo lontani) e ha già rivolto la sua attenzione alla propria dimensione interiore, passaggio indispensabile per una compiuta emersione della propria identità con la quale, poi, nel corso dei componimenti successivi, contemplerà silenziosamente Dio.
Per quanto riguarda le figure retoriche, come in altri componimenti della stessa raccolta, troviamo qui un enjambement in ogni strofa: è una figura retorica prolunga il significato di un verso in quello successivo e rende sul piano sonoro sensazioni quali l’allontanamento e la separazione.
Le anafore presenti nelle prime due strofe (vv. 1 e 5 e vv. 2 e 8) rendono tangibile la correlazione tra le due parti del componimento, che fungono da premesse alla terza strofa e sono speculari (l’una dedicata alla gioia, l’altra alla serietà).
Come in altre poesie della stessa raccolta, in più di un verso troviamo l’iperbato, una figura retorica che conferisce al componimento una maggiore ricercatezza e sottolinea l’importanza di alcuni termini.
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “A volte dico: tentiamo d’esser gioiosi” di Cristina Campo: una poesia sull’allontanamento dalle illusioni
Lascia il tuo commento