Airone 1. Retroscena di un’epoca
- Autore: Antonio Cornacchia
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2016
Non tutta la verità, ma quasi, sulle trame oscure in Italia e suo segreti degli Anni di Piombo. Un libro che non mette la parola fine a tanti casi irrisolti, ma consente certamente di apprendere molto di più e di vero. È “Airone 1. Retroscena di un’epoca”, il corposo volume del generale Antonio Cornacchia, a cura dell’ingegnere sceneggiatore umbro Angelo Giannelli Benvenuti, ritornato nelle librerie nel 2016, per i tipi dell’editoriale mantovana Sometti (pp. 464, euro 21,00), dopo la prima edizione nel 2001, in altra veste e presso un altro editore.
Non ci si aspetti rivelazioni da prima pagina, non sarebbero e non sono possibili, perché se è vero che il Governo Renzi ha disposto la declassificazione dei documenti sulle stragi, una parte del materiale è stata riclassificata “segretissima”, accessibile solo a magistrati e Commissioni parlamentari, ma anche per loro rigorosamente non divulgabile, pena il carcere. Sui casi più scottanti il segreto di Stato resta, perciò e non può essere violato.
Oggi, Antonio Federico Cornacchia è un energico ottantacinquenne (è nato a Monteleone di Puglia nell’ottobre del 1931). Vive a Foligno ed è uno di quelli con gli alamari cuciti sulla pelle, Carabiniere da una vita e per sempre, promosso dalla gavetta alla carriera da ufficiale della Benemerita, dal corso sottufficiali nel 1952 all’Accademia Militare di Modena.
Per l’Arma, ha condotto indagini sui casi principali di cronaca nera e politica della Prima Repubblica, dal terrorismo alle stragi, dal sequestro e assassinio di Aldo Moro al delitto Paolini, dai crimini della Banda della Magliana ai rapimenti e omicidi più clamorosi. È Cornacchia ad avere catturato il nemico pubblico numero uno dell’epoca, Renato Vallanzasca, insieme a non pochi nomi di spicco dell’Anonima Sequestri sarda, anche loro ammanettati dal suo Nucleo. Ha servito poi nel controspionaggio militare, occupandosi di terrorismo internazionale e traffico d’armi, prima del congedo che lo ha visto dedicarsi all’attività legale e seguire i suoi Carabinieri in qualità di alto dirigente dell’Associazione Nazionale dell’Arma in Umbria.
La sua permanenza presso il Nucleo Carabinieri a Roma, poi Reparto Operativo, ha coinciso con un periodo particolarmente tragico per il Paese, sotto l’aspetto sociale, economico, politico e con riflessi pesantissimi sull’ordine pubblica e la sicurezza collettiva. È tutto nell’ampio volume, capitolo per capitolo, paragrafo per paragrafo, con articoli e documenti, 222 immagini e foto.
Una vita ad affrontare grandi (soprattutto) e piccoli delinquenti, ma chiamarli così può risultare fuorviante, perché in effetti sono "criminali". Una volta, dice, era possibile che ci si avviasse al delitto per mancanza di occupazione. Oggi è più facile che piuttosto di un lavoro onesto si preferisca
“vagabondare, oziare, optare per la strada più comoda del delitto, perché rende”.
Una volta si diceva che la delinquenza nascesse dalla miseria. Se poteva essere vero allora, adesso non lo è più. I colpi ai danni di gioiellieri, banche, furgoni portavalori sono condotti con una tecnica sofisticata e fruttano molti soldi. Sono crimini che derivano
“non dalla povertà materiale ma da quella morale di tanti malfattori che posseggono mezzi in misura, a volte, molto maggiore delle stesse vittime”.
I fattori che causano la criminalità, sempre molteplici, vanno cercati anche nell’uomo.
“Non possiamo soltanto dire che del delitto è causa la società, bisogna chiedersi anche se nel dissolversi dei valori, ne prendano il posto altri e se nel vuoto intorno a noi spazino istinti incontrollati”.
Ci sono errori generati da stati di necessità, ma la gran parte dei reati è provocata dall’avidità, non dalla disperazione.
Nelle sue conclusioni brevi - le chiama “commiato” - il generale Antonio Cornacchia non nasconde la delusione della deriva dei valori assunta dalla società. Lo addolora assistere al sovvertimento del rapporto diritti-doveri.
“La nostra era una società del dovere e tale sempre apparve ancorché si tentasse di renderli compatibili coi diritti che si volevano rivendicare”.
Dal modello dell’uomo-dovere ci si è spinti all’uomo-diritto e basta, l’uomo rivendicativo.
Per le generazioni nate fino agli anni Sessanta, la lezione dei doveri era venuta dai nonni, dai padri, dagli insegnanti. La scuola non si limitava a insegnare, educava. Ma nella società del "diritto innanzitutto" i doveri finiscono in disparte, quando non vengono ignorati.
Sono considerazioni che fanno riflettere. E che se non si condividono interamente si fa comunque fatica a confutare, perché hanno tanto di autentico, di sensato. Nella stagione del "chi te lo fa a fare", del "prima se stessi", è difficile che possa fiorire qualcosa. L’egoismo non porta lontano.
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