Quando il dolore permette una nuova e imprevedibile fioritura. Chi ha già visto il film Al di là dei sogni non può fare a meno di rivederlo, e per coloro i quali è la prima volta questo articolo è un invito a prepararsi a un viaggio capace di trasportare lo spettatore al di là delle semplici tecniche cinematografiche. Perché in questo bellissimo film (prima un libro nato dalla penna di Richard Matheson), uscito sul finire degli anni ’90 e interpretato da un magistrale Robin Williams, non assistiamo a una trama scontata, leggera e facilmente digeribile, ma al contrario a uno scenario fantascientifico in grado di farci prendere le distanze dai soliti confini spazio temporali.
Perché se da un lato ciò che viene descritto sembra lontano anni luce è pur vero che le capacità immaginifiche non fanno altro che rendere reale quello che più di tutto è custodito dentro di noi; ossia sognare a occhi aperti. Il regista (Vincent Ward) offre infatti allo spettatore un valido spunto di riflessione, rispetto al quale lontananza e vicinanza, reale e fantasioso, ancestrale e contemporaneo danzano all’unisono; dando vita a un turbinio di emozioni e colpi di scena in grado di rimettere in discussione ciò che più ritenevamo veritiero, assoluto e definitivo.
Al di là dei sogni: di cosa parla?
In una trama ben architettata la scena si apre in un lago, in cui l’elemento più antico del mondo, l’acqua, sembra voler dare alla luce due vite, ignare di quanto li attende. Perché se la vita la si considera un viaggio, i mezzi che spesso e volentieri essa ci dona sono fatti di colore, chiaroscuri, emozioni e tanta tenacia pronta a far sbocciare un comune denominatore: l’amore.
Quest’ultimo difatti guida sin dalle prime scene del film i due protagonisti, Chris e Annie, due anime gemelle provenienti da due mondi differenti, ma accomunati dall’amore per la vita e per quella dei figli, Marie e Ian. Eppure in quella che sembra essere una trama scorrevole e priva di intralci, un ulteriore elemento fondamentale sembra insinuarsi nelle loro vite. L’ingresso della morte infatti, priva di qualsiasi remora e di qualsivoglia ragionamento, non tarda a creare una falla profonda nell’animo dei due protagonisti, i quali si sentiranno catapultati in una dimensione del tutto nuova, priva di confini e ricca di un dolore all’apparenza irrisolvibile.
Perché se da un lato accogliere la morte di un genitore rientra nell’ordine biologico del nostro tempo, la perdita dei figli riflette qualcosa di innaturale, controcorrente e dolorosamente priva di un significato. Tuttavia, in un crescendo sempre più intenso, il film sembra voler dispiegare un qualcosa che la mente di oggi, così razionale e unilaterale, proprio non riuscirebbe a concepire. Ossia la capacità di affidarsi al mistero per farsi guidare da un qualcosa di sconosciuto, che il più delle volte sembra saperla più di della ragione. Tuttavia questa “nera Signora” sembra non dare pace al rapporto coniugale dei due protagonisti, i quali dopo la perdita di Marie e Ian (i figli) dovranno fare i conti con una delle più acerrime nemiche del panorama contemporaneo; la solitudine.
Una condizione che la moglie, Annie, si troverà a vivere a seguito della morte del marito avvenuto sulla strada per il ritorno di casa. Uno stato d’animo inflitto e dinanzi al quale non sembra esservi rimedio alcuno se non quello del suicidio. Se non vi è morte non può esservi rinascita. Spesso entrambe le condizioni sopra introdotte, rispecchiano condizioni esistenziali che non sempre siamo disposti ad accogliere. Lo psicoanalista James Hillman le avrebbe definite tappe evolutive, nondimeno, mai come in questa trama il contributo del noto autore americano risulta più appropriato per scoprire i doppi volti di quanto tutti i giorni ci troviamo a vivere.
In questo film assistiamo alle tante sfumature capaci di valorizzare il contenuto alchemico e trasformativo del dolore e di quella capacità insita in ognuno di noi che è l’immaginazione. Sareste in grado di trovare la felicità nella tristezza? Di immaginare uno scenario alternativo in grado di riflettere il forte legame tra due anime nonostante l’inferno arrecato dalla sofferenza? Sono domande rispetto alle quali il regista sembra voler porre una sfida e tramite le quali Hillman vuole invitare ciascuno di noi a riflettere sull’uso delle parole e sul valore che a esse attribuiamo.
Spesso e volentieri in maniera definitiva tendiamo ad autoinfliggerci sentenze prive di alternative e di sentieri che solo l’immaginazione sarebbe in grado di farci percorrere. Quest’ultima infatti è una delle chiavi principali grazie alla quale Chris, una volta deceduto, avrà l’opportunità di scavare dentro di sé, affrontando un viaggio che lo aiuterà a scoprire nuove parti di sé e a rivedere quegli schemi di pensiero che altro non facevano se non limitarlo nel cuore e nella mente. Attraverso una guida (interpretata da Cuba Gooding Jr) affronterà una vera e propria discesa verso quanto il suo subconscio è in grado di custodire.
Quello che pian piano scoprirà è una ricchezza interiore, in cui le tracce dei forti legami lo avvicineranno sempre più a dimensioni spazio temporali imprevedibili. Nondimeno quello che più affascina è il gioco di proiezioni operate sia dal protagonista che dai suoi stessi compagni di viaggio. All’unisono ciascuno di loro porta con sé una figura guida che vede riflessa nel volto di un nuovo incontro e gli scenari di quelle medesime tappe del viaggio saranno lo specchio dei ricordi partoriti da una mente capace di serbare il lato più antico e intimo.
Una discesa verso il buio e verso le tenebre che richiamano un po’ il mondo di Dante, ma che sotto una nuova chiave di lettura insegnano ad acquisire nuovi occhi per promuovere quello che la morte porta con sé: una nuova rinascita.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Al di là dei sogni, una trama ricca di colori. Dal libro di Matheson al film
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