Composta nel 1573, nel momento più sereno della vita di Torquato Tasso, l’opera teatrale Aminta era destinata alla rappresentazione per la corte. Tecnicamente è una favola pastorale o “favola boschereccia”, genere in voga a Ferrara intorno alla metà del XVI secolo. Di cosa si tratta?
Il sostantivo favola (dal latino fabula, testo drammatico) ne enfatizza la natura teatrale, intesa come teatro di parola perché i fatti sono affidati ai dialoghi, non agiti. A differenza della tragedia, non presenta uno stile sublime e un finale luttuoso. Però, malgrado l’happy ending, non propone nemmeno situazioni comiche e pseudo realistiche proprie della commedia.
Struttura dell’opera Aminta di Tasso
Si articola in 5 atti di versi endecasillabi e settenari incorniciati da un Prologo, recitato da Amore e un Epilogo monopolizzato da Venere. Poiché la vicenda si svolge nell’arco di una giornata con scena unica, il testo rispetta le unità aristoteliche di tempo, luogo, azione. I personaggi sono affiancati da un coro di pastori che interviene al termine di ogni atto per commentare gli avvenimenti. La sua funzione di pubblico ideale ricorda quella del coro nella tragedia greca. Il più famoso è quello dell’atto I che rimpiange la mitica età dell’oro, di cui rimarrebbe il mondo dei pastori. Tasso ne rimpiange il trionfo dei sensi senza divieti e costrizioni, già del tardomedievale Boccaccio. Ma cosa ha inibito tale libertà? Non la religione, bensì l’insieme delle convenzioni sociali che regolano la vita di happy few, cioè la corte.
Cosa significa “S’ei piace, ei lice”, la legge morale che attualizza il coro? È un invito a godere di giovinezza e bellezza e amore. Lo stesso della ballata “I’ mi trovai, fanciulle” di Poliziano, ma dalle sonorità più struggenti e malinconiche. Un invito, questo, che accompagna la lirica di tutti i tempi.
L’Aminta è ambientato nello stesso mondo pastorale della lirica arcadica settecentesca, vivificato da un amore innocente e felice, alieno da sensi di colpa e peccato. Infatti, il motivo conduttore è l’invito ad amare in un orizzonte favoloso e primigenio, scandito dalla natura.
Personaggi e trama
L’Aminta fu rappresentata per la prima volta con grande successo il 31 luglio 1573 dalla celebre compagnia dei Gelosi per il duca Alfonso II, nella suggestiva location dei giardini dell’isoletta del Belvedere sul Po, luogo di villeggiatura degli Estensi. Per la pubblicazione occorre attendere il 1580.
La trama gravita sulle schermaglie tra il pastore Aminta - smarrito di fronte al mistero dell’amore - e la ninfa mortale Silvia che – dedita alla caccia in quanto ninfa di Diana –, sembra refrattaria ad esso malgrado i consigli dell’amica più grande Dafne. Dopo equivoci a catena, i due convolano a nozze.
Sapevate che gli attori erano cortigiani, perché secondo una circolarità tipicamente rinascimentale la corte è mittente e fruitore del prodotto artistico? Andiamo a vedere chi calca la scena. Dietro i pastori Elpino, Tirsi, Batto, Alfesibeo ci sono rispettivamente:
- Giovan Battista Pigna (segretario del duca Alfonso d’Este e grande umanista),
- Tasso (recitando la parte dell’amico consigliere, è il corrispettivo di Dafne per Silvia),
- il Guarini (autore del Pastor fido),
- Girolamo Brasavola (medico di corte e cognato del Pigna),
- la nobile ferrarese Lucrezia Bendidio, che impersona la bella Licori
Un po’ di gossip non guasta: Lucrezia è il primo amore, non corrisposto, di Tasso che, diciottenne, le aveva dedicato numerose rime petrarcheggianti. Su questo punto però gli storici non concordano. Per alcuni fu l’Amore del poeta, per altri fu oggetto di poesia celebrativa secondo la moda cortigiana. Nel 1573 era da tempo sposata con il conte Baldassarre Macchiavelli e amante del cardinale Luigi d’Este.
Le ascendenze letterarie
Quando alle ascendenze letterarie dell’Aminta, c’è l’imbarazzo della scelta perché il genere pastorale poggia su una robusta tradizione: Teocrito, Mosco, Virgilio, Poliziano, Sannazzaro. Oltre a quella letteraria, è forte la componente autobiografica e ideale. La prima comporta una fitta rete di allusioni a persone e fatti, evidenti ai contemporanei, a noi meno. La seconda esprime il desiderio di evasione dalla corte. Anche questo è un dato biografico alla luce del rapporto ambivalente e tormentato che l’autore della Gerusalemme liberata ebbe con la corte: celebrata come polo luminoso d’attrazione e respinta con fughe reiterate, perché Tasso non trovò mai il suo heimat.
Resta l’incanto di un testo che per sensualità, grazia disimpegnata, musicalità è stato giudicato il più grande madrigale del Cinquecento.
Un’ultima chicca. Tasso si dedicò contemporaneamente alla stesura dell’Aminta e dell’episodio di Erminia tra i pastori nella Gerusalemme liberata. Di conseguenza, Dafne si duole perché “perduto è tutto il tempo che in amar non si spende”, Erminia si strugge anche di notte per Tancredi "né però cessa Amor con varie forme la sua pace turbar mentre ella dorme".
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Aminta di Torquato Tasso: struttura, temi e personaggi
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