Nel 1889 Luigi Capuana pubblicava la terza edizione riveduta del suo famoso romanzo Giacinta – edito fin dal 1879 – aggiungendovi un’illuminante prefazione sul tormentato percorso di quel primo esperimento verista, nato dopo le letture di Balzac e del ciclo dei Rougon-Macquart, tra consapevolezza di aver trovato la materia adatta, estenuante riflessione sulla forma da assegnarle e certezza dello scandalo che sarebbe scoppiato dopo la sua pubblicazione, come risulta dal seguente passaggio:
Quello che accadde quando Giacinta apparve in pubblico Voi lo sapete. Fu un urlo d’indignazione. Un editore, che era passato pel giornalismo ed ha spirito e mordacità per dieci giornalisti presi insieme, la disse addirittura un abominio, e insinuò che io avevo voluto speculare sul sudiciume, lusingando quanto di più basso e di più sconcio ha l’umana natura.
La dedicataria della prefazione – scelta come intermediaria delle sue dichiarazioni programmatiche e più volte indicata come interlocutrice per una riflessione teorica sul destino del romanzo moderno – era la sua amica scrittrice Anna Radius Zuccari ormai conosciuta da tutti con lo pseudonimo di Neera dal 1875, anno dal quale iniziò a pubblicare su giornali e riviste novelle e racconti con protagoniste donne. La scrittrice aveva allora già dato vita alla cosiddetta Trilogia della donna giovane costituita da due romanzi intitolati rispettivamente Teresa (1886) e Lydia (1887), e un terzo intitolato L’indomani (1889) la cui protagonista è Marta.
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Il canone verista in alcune opere di Neera
Proprio per questi romanzi citati e per il precedente Il Castigo (1881), la scrittrice non può che essere inserita a pieno titolo nel canone verista, come ha argutamente dimostrato Catherine Ramsey-Portolano nel suo saggio del 2004 Neera la scrittrice verista. Si può contemporaneamente affermare con certezza che la scrittrice sia una acuta e oggettiva
testimone dello status di profonda soggezione e schiavitù nel quale viveva la donna di fine Ottocento.
Lo dimostrano, senza ombra di dubbio, le protagoniste della predetta trilogia.
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Infatti Teresa è una zitella involontaria, che rinuncia a un matrimonio di convenienza che le vorrebbe imporre il padre padrone e riesce a coronare il suo sogno d’amore, seppur tardi, con una fuga che diventa sinonimo di libertà conquistata con il sacrificio e la perseveranza; Lydia, nella ricca e ipocrita società milanese di cui fa parte, non si preoccupa di creare scandalo con il suo incessante bisogno di divertimento – scopo della sua vita – insieme all’incessante ricerca del vero amore; infine, Marta affida al giorno che verrà le sue fino ad allora disilluse speranze di vivere un amore pieno di passione e condivisione, pur avendo sposato una persona anaffettiva.
Le figure femminili di Neera e la sua presunta posizione antifemminista
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Certamente Neera riesce a dare voce alle sofferenze, alle sconfitte e qualche volta alle tardive vittorie delle donne dei suoi tempi, ma partendo da una convinzione – più volte espressa come tesi nei suoi scritti teorici, soprattutto nel tanto analizzato e spesso criticato Le idee di una donna (1904) – che la loro realizzazione si trovi in un matrimonio felice con un uomo appassionato (che dovevano avere la possibilità di scegliere liberamente) e nel loro ruolo di madri o perfette educatrici, se non avessero potuto coronare il proprio sogno d’amore con il matrimonio.
Ecco perché, quando leggo che il messaggio che sembra pervenire da romanzi e novelle della scrittrice sarebbe in netta contraddizione con la sua riflessione teorica sul ruolo e sul posto della donna nella società del tardo Ottocento, rimango fortemente perplessa.
Io non vedo contraddizioni tra le scelte di emancipazione dal dominio maschile delle protagoniste delle sue opere narrative e la sua posizione giudicata antifemminista, perché le donne dei suoi romanzi e delle sue novelle rivendicano il proprio spazio di scelta autonomo e di libertà di giudizio e azione solo nella famiglia: come zitelle che agognano il matrimonio, come mogli o come madri. Queste donne, al di fuori di quello della famiglia, non troverebbero altri spazi autentici di appagamento alle proprie istanze e ambiscono a riconoscersi solo nel tradizionale ruolo di moglie e madre.
I saggi teorici e i romanzi veristi della Radius sono strettamente collegati sulla base del radicalismo determinista che – a partire dal Taine – assegnava la responsabilità dell’evoluzione di ogni esistenza umana a race (discendenza), milieu (ambiente sociale) e moment (epoca storica); la nostra scrittrice quindi, considerando il ruolo della donna, lo lega strettamente a quella che ritiene essere la sua natura con le sue precipue caratteristiche, molto diverse da quelle dell’uomo. E afferma che i ruoli tra i due sessi devono rimanere ben distinti, come si evince dai seguenti passi, tratti proprio dal saggio già citato del 1904:
Ammesse dunque tutte le circostanze particolari, i casi separati, le eccezioni, le vocazioni, e considerato che la donna ha la sua struttura conformata in altro modo che non sia quella dell’uomo, e la sua intelligenza e la sua anima sono tanto necessarie altrove che non nel campo della attività maschile, resti donna, più che mai donna, niente altro che donna; alta, nobile, sublime, coraggiosa, forte, ma donna: e migliori i suoi interessi, ma restando donna.
E sia madre! Poiché la maternità è la più splendida corona della vita e che la natura la offerse alla donna, a lei sola, facciano gli uomini in modo che ogni donna abbia la sua parte.
Per Neera ognuno deve ricoprire quel ruolo naturale che gli è proprio:
Se l’uomo ha progredito ha progredito con lui anche la donna per ineluttabile legge di equilibrio naturale, e progredirà ancora, ma senza bisogno di scindere quella che io chiamo causa comune. Fare ognuno la propria parte con un medesimo fine, ecco ciò che si deve; ma ognuno la propria parte.
Neera e la sua tesi di progredita femminilità o femminismo vero
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La ribellione delle protagoniste dei romanzi della prima interessante trilogia – a prescindere da considerazioni sulla riuscita o meno del loro agire – si realizza perché, a detta dell’autrice, l’umanità progredisce e i ceppi che stringevano i polsi delle donne non sono caduti, ma si sono molto allentati:
Nella mia modesta opera letteraria ho sempre studiato i desideri e le aspirazioni della donna, la nobiltà delle sue attitudini e della sua missione, i suoi amori, i suoi dolori, i suoi disinganni, i suoi trionfi; né rifuggii dall’agitare i ceppi che le stringono qualche volta i polsi, oh! molto allentati nel decorso dei secoli, e per ciò solo comprovanti che l’umanità segue il suo corso ascendente senza bisogno di violentarla.
E definisce la sua tesi di progredita femminilità o femminismo vero, che combacia con la certezza che il progresso della donna sia andato e vada di pari passo con quello dell’uomo:
I capitoli che raccolgo in questo volume mi vennero suggeriti osservando e ascoltando l’onda del femminismo che si avanza e nel quale non ravviso affatto il mio ideale di progredita femminilità. È troppo maschile per essere del femminismo sincero. Gli sforzi che si fanno per uguagliare l’uomo mostrano chiaramente che la donna non si riconosce più nella integrità del proprio valore, ed è questo valore suo che difendo con schietto ardore, dedicando i miei sforzi alle donne che accettano con semplicità e nobilmente la loro grande missione, facendo cioè del femminismo vero.
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Della parola femminismo troviamo solo un’occorrenza in Una giovinezza del XIX secolo, in un passo altamente significativo:
I fautori estremi del femminismo, che vorrebbero emancipare la donna dalla casa, dal marito e dai figli spingendola sulla via delle conquiste maschili col sofistico pretesto che non tutte possono avere una casa, un marito e dei figli, dimenticano che la felicità non si trova che nel pieno esercizio delle proprie attitudini. Le iniezioni di mascolinità, che essi vogliono fare alla donna, se potranno offrire qualche frutto sporadico alle poche eccezioni che sono in grado di profittarne, ben maggior danno recherebbero alla donna e alla società portando il turbamento in migliaia e milioni di animuccie le quali si persuadono facilmente di innalzarsi meglio a sgonnellare negli Uffici pubblici, anziché raccogliersi vigili e silenziose sopra una culla.
Quindi, sia la posizione di Neera sul progresso “automatico” della condizione femminile che la sua idea di femminismo derivano dal suo determinismo di genere e fanno e faranno certamente ancora discutere. Inoltre, se è vero che la distanza dei suoi romanzi veristi dall’acclarato femminismo della Aleramo è notevole, le si deve comunque riconoscere il merito di aver fatto emergere con notevole forza narrativa la condizione di subalternità delle donne di fine Ottocento, come in questo illuminante passo di Teresa:
Capiva le ragioni del padre: aveva troppo vissuto in quell’ambiente e in quello solo, per non essere persuasa che la sua condizione di donna le imponeva anzitutto la rassegnazione al suo destino — un destino ch’ella non era libera di dirigere — che doveva accettare così come le giungeva, mozzato dalle esigenze della famiglia, sottoposto ai bisogni e ai desideri degli altri. Sì, di tutto ciò era convinta; ma anche un cieco è convinto che non può pretendere di vedere, e tuttavia chiede al mondo dei veggenti, perché egli solo debba essere la vittima.
Quando Carlino partì, accompagnato dai voti e dalle speranze d’ognuno, Teresina mormorò tristemente: — Ecco, egli va a formarsi il suo avvenire come vuole, dove vuole!
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: La fase verista di Neera: tra determinismo di genere e presunte derive antifemministe
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