Canto della mia nudità è un testo fondamentale per comprendere la poetica di Antonia Pozzi. Un autoritratto in poesia che tuttavia ribalta i canoni tradizionali della ritrattistica, trasponendo l’interiorità nell’esteriorità.
Nella sua autorappresentazione lirica, la poetessa non si limita a descrivere la superficie del corpo - che pure viene descritta nella sua carnalità - ma ne fa emergere la coscienza. Non è, di conseguenza, un corpo svuotato, una nudità disincarnata, ciò che Pozzi descrive, ma il suo corpo vivente, singolare: nelle vene pulsa il sangue, il petto si solleva lento al ritmo del respiro, la pelle rivela contorni, pallori e arrossamenti, la schiena si inarca in una tensione vitale pronta ad accogliere il desiderio e il riposo.
Possiamo leggere la poesia da un duplice punto di osservazione: da un lato è il tentativo di una giovane donna di definirsi, di dire “ecco, questa sono io”, come se si scattasse una fotografia per vedersi meglio; una specie di “selfie poetico” ante litteram che rispecchia anche il desiderio ardente, proprio della prima giovinezza, di essere guardata e, quindi, di essere amata; dall’altro è disamina, profonda e universale, del concetto di mortalità, poiché nella nudità si riflette la fragilità insita nella condizione umana e anche la solitudine che è ad essa strettamente correlata.
Vediamone testo e analisi.
“Canto della mia nudità” di Antonia Pozzi: testo
Guardami: sono nuda.
Dall’inquieto languore della mia capigliatura
alla tensione snella del mio piede,
io sono tutta una magrezza acerba
inguainata in un color avorio.
Guarda: pallida è la carne mia.
Si direbbe che il sangue non vi scorra.
Rosso non ne traspare.Solo un languido palpito azzurrino sfuma in mezzo al petto.
Vedi come incavato ho il ventre.Incerta è la curva dei fianchi, ma i ginocchi
e le caviglie e tutte le giunture,
ho scarne e salde come un puro sangue.Oggi, m’inarco nuda, nel nitore del bagno bianco
e m’inarcherò nuda domani sopra un letto,
se qualcuno mi prenderà.
E un giorno nuda, sola,
stesa supina sotto troppa terra,
starò, quando la morte avrà chiamato.
“Canto della mia nudità” di Antonia Pozzi: analisi e commento
Da un punto di vista strettamente biografico questa poesia di Antonia Pozzi raffigura un “momento di scoperta” comune a tante adolescenti: l’essere sole davanti a uno specchio, scrutare il proprio corpo che cambia, come se si stesse commettendo un atto proibito, scoprire con vergogna - con impudicizia - il proprio “essere donna” nelle curve di una carne levigata e soda che ha ormai perso i propri tratti infantili e rivendica un nuovo desiderio. L’adolescenza è il momento in cui si avverte, per la prima volta, il pericolo della propria “nudità”: il corpo diventa esposto e non è più innocente, contiene un segreto, è come la mela di Eva, simboleggia la cacciata irrevocabile dal Paradiso terrestre. Si tratta di un momento senza ritorno. L’Eden dell’infanzia - fatto di miele e ambrosia e appagamento dei sensi - pare irraggiungibile e l’inferno sembra vicino, come un baratro che si spalanca sotto i piedi nella presa di coscienza della propria unicità e fragilità, della propria inguaribile solitudine.
Canto della mia nudità è la poesia che rappresenta questo distacco: la farfalla sta lentamente uscendo dalla crisalide, la fanciulla si scopre donna in una “magrezza acerba inguainata in un color avorio”. Davanti allo specchio la ragazza si sta scoprendo nella sua corporeità, ma fin dal principio capiamo che il suo desiderio non è quello di guardarsi, ma di “essere guardata”, una necessità comune a tante adolescenti.
La poesia inizia con una richiesta precisa, si rivolge da subito a un non meglio definito “tu”:
Guardami, sono nuda.
Nella candida stanza da bagno, naturalmente, non c’è nessun altro. La ragazza è sola, eppure non del tutto: possiamo individuare in Canto della mia nudità la stessa impellente necessità rappresentata oggi dai selfie, gli autoscatti al cellulare che vanno così di moda, un’autorappresentazione fatta per essere ammirata. “Eccomi sono io”, dicono questi scatti in cui ciascuno cerca di mostrare la versione migliore di sé e tutti, in fondo, sottintendono la stessa cosa, rivendicano la stessa urgenza: “guardami”.
Lo stesso fa Antonia davanti allo specchio, si guarda per essere guardata. Dopo aver analizzato minuziosamente il suo corpo nudo, acerbo, pulsante di vita, catalogandone pregi e difetti, immagina quel corpo come “dono”. Nella corporalità ancora acerba della giovane scorre il desiderio di essere amata, di frantumare la propria solitudine:
Oggi, m’inarco nuda, nel nitore del bagno bianco
e m’inarcherò nuda domani sopra un letto,
se qualcuno mi prenderà.
Alla fine tuttavia è proprio la solitudine a prendere il sopravvento, come ben enfatizza quella parola, “sola”, che fa rima con “nuda”, nella strofa finale.
E un giorno nuda, sola,
stesa supina sotto troppa terra,
starò, quando la morte avrà chiamato.
Le due strofe sono speculari, due rappresentazioni di presente e futuro, nelle quali il corpo è chiamato a incarnare il processo della vita. Antonia ora pensa al suo corpo vivo, pronto ad amare e a essere amato, ma non lo scinde dalla visione del suo corpo morto che un giorno sarà immobile, disteso sottoterra.
Nella “nudità” si incarna la fragilità dell’essere umano che così, esposto nel suo essere fatto di carne e sangue, si scopre vulnerabile, quindi mortale. Nella conclusione scopriamo che lo sguardo che Antonia Pozzi rivolge a sé stessa, nello specchio di quel bagno lindo e splendente, si estende, in realtà, in chiave universale: parla di sé stessa, ma anche di ogni essere umano, della solitudine e della debolezza che caratterizza ogni essere vivente lungo il percorso verso un destino ignoto.
Nel corpo nudo di Antonia passano tutte le stagioni della vita: nella sua apparenza esteriore la poetessa riversa la propria interiorità, fatta di timidezza e grazia, di spregiudicatezza e voglia d’avventura, ma anche di paura, smarrimento, solitudine. Vediamo una giovane donna fragile e audace, intensamente viva, mentre i suoi pensieri scorrono alla stessa velocità del sangue che le fluisce copioso nelle vene.
Eros e thanatos si mescolano in questi versi, al contempo lugubri ed erotici: impossibile dire quale dei due prevalga. Quel che è certo è che la morte era ancora lontana, ma già Antonia Pozzi la avvertiva come un presagio: forse intuiva che sarebbe morta giovane. Nella superficie levigata del suo corpo nudo, pieno di giovinezza e di ardore, si riversava appieno la storia di un’anima.
Canto della mia nudità ricorda un quadro di Edward Hopper: Summer Interior (1909), custodito presso il Whitney Museum of American Art. Anche Hopper ritrae una giovane donna, come se la stesse spiando dal buco della serratura. Non c’è uno specchio, ma il quadro stesso sembra essere lo specchio in cui si riflette il suo corpo. Lei appare al centro dell’ambiente quasi claustrofobico di una stanza che immaginiamo chiusa dall’interno, inaccessibile. Il titolo del quadro fa riferimento all’estate - Summer - ma le tinte riverberano una luce cupa che ci permette di intuire i pensieri della giovane protagonista, il suo senso di solitudine e vulnerabilità.
Lei è stesa sul pavimento, mentre con un gomito si appoggia al letto, è coperta da una sottile camicia bianca che le lascia scoperto l’inguine di cui si intravede la lanugine scura. Dipingendo questo Hopper voleva farci intuire la vulnerabilità della ragazza: i genitali esposti suggeriscono una violenza, un’identità violata, ma anche la sua solitudine. Lei è china su sé stessa, lo sguardo rivolto verso il basso; sembra scoprirsi per la prima volta, prendere coscienza di sé.
La ragazza del quadro di Hopper non è molto diversa da Antonia Pozzi; tuttavia in questa poesia noi non vediamo il corpo accartocciarsi, rintanarsi per pudicizia e soggezione, invece si espone allo sguardo con fierezza e sembra librarsi, farsi grande e forte, abbracciare il mondo intero. La nudità di Antonia Pozzi è indissociabile dal suo impulso vitale, poiché la morte è coniugata al futuro e non appartiene al presente, dove invece tutto è racchiuso nell’attimo ardente e pieno di potenzialità in cui il sangue palpita nelle vene. E non si sottrae all’imperativo “Guardami”, che spezza il sortilegio della solitudine.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Canto della mia nudità” di Antonia Pozzi: analisi di un autoritratto in poesia
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