La sua data di nascita e la sua data di morte sembrano un anagramma: Djuna Barnes nacque il 12 giugno 1892 e morì il 18 giugno 1982 sempre nella sfavillante città delle luci, New York. Si definiva “la più celebre sconosciuta al mondo”, una descrizione peculiare che rimarcava la singolarità della sua presenza al contempo sfuggente e pervasiva. Per natura era solitaria, ma quando entrava in un salotto sapeva riempire la stanza con i suoi movimenti e la sua voce, non c’erano occhi che per lei. Trascorreva le sue serate vagando per salotti e caffè; indossava una lunga mantella che si diceva fosse appartenuta a Peggy Guggenheim, aveva un volto dai lineamenti marcati, dal bianco profilo, occhi grandi che sapevano forarti l’anima e, come ricorda la poetessa Cristina Campo in un memorabile ritratto, “un naso perfetto, desolato, inclemente”.
Fu tutto e niente, tenendo fede all’apparente ossimoro con cui si definiva: “celebre sconosciuta”. Non era una scrittrice prolifica, ma le sue poche opere lasciarono il segno; fu giornalista, reporter, suffragetta, illustratrice. Di base era una sperimentatrice e ciò che contraddistingueva ogni cosa da lei compiuta - fosse un pezzo di cronaca, una recensione, uno spettacolo, un ritratto - era la cifra propria di un artista, ovvero la “singolarità del suo sguardo”.
Scopriamo la vita e le opere di Djuna Barnes.
Djuna Barnes: la vita
Djuna era figlia di un pittore e compositore, Wald Barnes, che tuttavia non era riuscito a imporsi granché al grande pubblico; su di lui aleggiava la fama sinistra di “artista fallito”, ma di certo non aveva perso l’estro né l’ispirazione. Era figlio di una donna straordinariamente controcorrente per l’epoca, Zadel Turner Barnes, scrittrice, femminista e attivista che aveva aperto le porte della sua casa per ospitare uno dei primi salotti letterari progressisti. L’eredità della nonna paterna confluì nelle vene di Djuna che crebbe in un clima molto anticonformista: il padre era un sostenitore del poliamore e invitò la sua amante, una certa Fanny Clark, a vivere con lui e la sua famiglia. Wald ebbe in totale otto figli, solo cinque di loro nacquero dalla moglie legittima, Elizabeth.
Di questa vasta prole Djuna era la secondogenita e dunque le toccò occuparsi di fratelli e fratellastri, colmando la quasi totale assenza delle figure genitoriali. Crebbe in un regime di completa anarchia: fu educata all’arte, alla letteratura, alla musica, ma non ricevette una vera e propria istruzione. Leggeva moltissimo, eppure non le fu mai insegnata ufficialmente l’ortografia né la grammatica.
La sua adolescenza fu segnata da un episodio traumatico: uno stupro, subito a soli sedici anni, cui lei accenna nel suo primo romanzo Ryder. Non fu mai chiarito chi fosse il colpevole - se il padre o un amico del padre - e Djuna stessa non fece più accenno all’evento. Non aveva ancora diciotto anni quando fu costretta dai genitori a sposare Percy Faulkner, il fratello di Fanny Clark. L’uomo all’epoca aveva cinquantadue anni; il matrimonio non durò più di due mesi e fu subito chiaro che Djuna non aveva un’indole docile né era incline alla sottomissione.
Dopo il divorzio dei genitori, avvenuto nel 1912, si trasferì con la madre e i fratelli a New York City. Qui frequentò dei corsi al Pratt Institute e iniziò a lavorare come reporter per il Brooklyn Daily Eagle. Leggenda narra che, pur non avendo nessuna istruzione formale né alcuna referenza, si fosse presentata al colloquio di lavoro con una certa spavalderia affermando:
So scrivere e so disegnare, sareste dei pazzi a non assumermi.
E di fatto venne assunta seduta stante. Grazie agli articoli il suo nome iniziò a circolare: la sua era una firma inconfondibile, così come la sua scrittura. Che si trattasse di recensioni di spettacoli, di pezzi di cronaca o di articoletti di moda e cultura il taglio che Djuna riusciva a dare a ciascuno di questi pezzi era inconfondibile, era soltanto suo.
In questi anni iniziò a militare nel movimento delle suffragette, opponendosi alla fazione conservatrice per aderire a quella più progressista. Nel 1914 diede alle stampe il suo primo saggio My Sisters and I at a New York Prizefight in cui narrava la sua esperienza come boxeur associandola all’emancipazione femminile, tutto ruotava attorno alla domanda: What do women want at a fight? (letteralmente cosa si aspettano le donne da un incontro/ lotta? Ndr).
Le parole di Djuna Barnes scardinavano secoli di oppressione patriarcale, mostrando una nuova figura femminile libera, disinibita, padrona di sé stessa, come del resto era lei che aveva dichiarato pubblicamente la propria bisessualità a ventun anni.
L’incontro con James Joyce e la carriera letteraria
Nel 1921 fu inviata a Parigi dal McCall Magazine per intervistare gli scrittori americani espatriati. Uno dei suoi primi articoli-intervista riguardò un certo James Joyce che rimase ipnotizzato dalla personalità di Djuna. Joyce le chiese di leggere il suo Ulisse e quel libro ebbe un ruolo chiave nello spronare Barnes alla scrittura. Nei suoi primi tentativi letterari lei adottò, non a caso, lo stile modernista del suo mentore.
Nel 1928 Djuna Barnes diede alle stampe il suo primo romanzo, Ryder: un libro autobiografico, in cui narrava un’esperienza poliamorosa, e dall’impianto fortemente sperimentale (ogni capitolo era scritto in uno stile diverso), tutta la narrazione e la trama stessa erano basate su una radicale instabilità.
Poco tempo dopo pubblicò, in tiratura limitata, Ladies Almanack una raccolta di racconti dedicata alle artiste lesbiche parigine in cui l’indiscussa protagonista era Natalie Clifford Barney, sua amica e mecenate, oltre che perno centrale della vita culturale parigina. Ogni personaggio era riportato sotto pseudonimo - benché il suo corrispettivo nella realtà fosse evidente. La raccolta era dedicata alla giovane aspirante pittrice Thelma Wood, la compagna-amante con cui era impegnata in una lunga e tumultuosa relazione. Poco tempo dopo la loro storia sarebbe arrivata al capolinea, dopo ben otto anni, lasciando in Djuna una cocente delusione dalla quale non si sarebbe mai ripresa del tutto. Iniziarono gli anni della reclusione, Djuna Barnes sparì dalle scene mondane svanendo con uno svolazzo del suo lungo mantello.
La pubblicazione di “Foresta di notte” (1936)
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La fama di Barnes scrittrice si consolidò con il libro Nightwood , in italiano Foresta di notte, pubblicato in Inghilterra nel 1936 in una costosa edizione da Faber and Faber, e in America nel 1937 da Harcourt, Brace and Company. La versione americana era corredata da un’introduzione di T. S. Eliot, grande ammiratore dell’opera di Djuna Barnes.
Il romanzo era ambientato nella Parigi degli Anni Venti e seguiva le vicende di cinque personaggi, due dei quali erano palesemente la stessa Barnes e Thelma Wood. La scrittura fu utile all’autrice per elaborare la difficile fine della loro relazione.
Era un libro strano, una prosa intrisa di poesia come spiegò Eliot nell’introduzione. Non aveva una trama precisa, vi veniva narrata una serie di accadimenti confusi, come incubi notturni che intrecciavano orrore, desiderio, sessualità, follia, all’apparizione di strani personaggi. Forse era il racconto introspettivo - presentato in forma dialogica - di una progressiva discesa nel baratro della follia di una personalità schizofrenica.
In seguito fu definito “uno dei libri migliori del ventesimo secolo” e sicuramente si tratta di un libro mitico, unico nel suo genere, senza uguali, capaci di riflettere l’inimitabile personalità della sua autrice. In Italia è stato riproposto dalla casa editrice Adelphi.
Djuna Barnes: la reclusione e gli ultimi anni
Negli anni Trenta, dopo la separazione da Wood, Djuna Barnes iniziò ad abusare di alcolici cadendo in un baratro infernale che la spinse persino a un tentativo di suicidio nella stanza di un hotel londinese. Ai tempi viveva nella grande casa di Peggy Guggenheim (all’epoca compagna di Max Ernst), che ospitava numerosi artisti, ma fu l’amica stessa a negarle la sua protezione quando vide lo stato di perdizione in cui Djuna era caduta. La rispedì a vivere dalla madre, credendo di poterle così essere d’aiuto, con il risultato di peggiorare ancora di più la sua condizione. Djuna litigò aspramente con la madre e i fratelli e fu ricoverata per un certo periodo in una clinica. Terminato il periodo di cura, da lei vissuta come una forma atroce di detenzione cui si ribellò con tutta sé stessa, tornò a vivere in un piccolo appartamento al Greenwich Village in una condizione di totale isolamento.
Non usciva mai e non voleva ricevere più nessuno. A mantenerla economicamente era sempre la sua mecenate, Peggy, che le inviava ogni mese un sostegno finanziario. Guggenheim l’aveva conosciuta all’inizio degli anni Venti, in Inghilterra, quando Djuna Barnes era al massimo del suo splendore e all’apice della sua popolarità. Peggy ricordava sempre Djuna immersa nel suo straordinario fervore creativo: quando si conobbero Barnes stava scrivendo Nightwood e rimaneva ore chiusa in casa, uscendo solo per una breve passeggiata quotidiana. Di ritorno da quelle passeggiate, ricorda Peggy Guggenheim nel libro Una vita per l’arte (Rizzoli, 2003), le portava sempre una rosa. Vorremmo ricordarla così e fermarci un attimo prima dall’inizio della sua discesa negli inferi, una caduta nell’abisso senza possibilità di salvezza perché, ormai era chiaro, Djuna Barnes non voleva essere salvata.
Nel 1950 scrisse una commedia in versi dal titolo The Antiphon in cui riversò la rabbia incandescente che provava nei confronti della sua famiglia e continuò a comporre poesie. Sul campanello di casa aveva posto un biglietto fissato con lo scotch, vi era riportata una minaccia neanche troppo velata: “Se intendi suonare vattene”. Si racconta che la scrittrice Carson McCullers si fosse appostata sotto casa sua per mesi nella speranza di incontrarla. Anche Anaïs Nin le scrisse invitandola a collaborare alla sua rivista femminista, ma non ottenne mai risposta. Pare che Barnes fosse offesa con Nin perché la scrittrice aveva osato dare a uno dei suoi personaggi il nome di Djuna ispirandosi a lei.
Ormai Djuna Barnes viveva unicamente nella sua leggenda. Scriveva per otto ore al giorno, ma delle numerose poesie che raccolse in quegli anni di reclusione solo alcune furono pubblicate dopo la sua morte. Morì il 18 giugno 1982, poco dopo aver compiuto novant’anni.
Era rimasta una “celebre sconosciuta” fino alla fine. Si racconta che il poeta E.E. Cummings le inviasse dei bigliettini in cui domandava: “Sei viva Djuna?”, ormai non si aveva più la sensazione di scrivere a una persona in carne ed ossa, ma a una specie di oracolo, a una presenza astratta totalmente incarnata nella scrittura.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Chi era Djuna Barnes, la scrittrice sconosciuta amata da Joyce
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