Una poesia che, sin dal titolo, appare come un manifesto programmatico di intenti quella di Audre Lorde. Chi ha detto che era facile, nell’originale Who said it was simple tratta da From a Land Where Other People Live (1973), si rende portavoce della visione del femminismo intersezionale e diventa simbolo di una feroce libertà.
Le poesie di Lorde fanno rumore, sono sovversive, rivoluzionarie, rappresentano il grido di una lotta sommersa. “L’albero della rabbia” citato nel primo verso di Chi ha detto che era facile ricorda i “grappoli dell’ira” (The Grapes of Wrath di biblica memoria, Ndr) menzionati da John Steinbeck, il titolo originale del suo Furore. Lorde, proprio come Steinbeck, sceglie di stare dalla parte (rischiosa) delle vittime, di coloro che non hanno voce né strumenti per ribellarsi: il premio Nobel riscattava i contadini dell’Oklahoma espropriati dalle loro terre, costretti a migrare verso Ovest in cerca di fortuna, mentre Audre Lorde sceglie di esprimere una rabbia più sottile, forse meno compresa, la rabbia delle donne di non sentirsi al proprio posto, di non sentirsi ascoltate né capite, di essere sottomesse proprio in virtù del loro sesso - e non solo.
L’albero della rabbia di Audre Lorde: l’origine del femminismo intersezionale
L’albero della rabbia, scrive Lorde, ha innumerevoli radici, perché tante e diversificate sono le ragioni dell’ingiustizia: iniziano sottili, invisibili, fin da quando le donne sono bambine e vengono educate a mantenere un comportamento remissivo, docile, servizievole. Le ingiustizie, al principio, sono così miti da apparire di poco conto: una bambina non deve correre come una selvaggia, deve servire il piatto in tavola come fa la mamma, deve essere sempre cortese nelle risposte, non alzare troppo la voce, non dare fastidio. C’è questa sottile costrizione imposta sin dall’infanzia: sei femmina, quindi obbedisci, non è mai detto esplicitamente, eppure non può essere messo in discussione; è come un destino racchiuso nel codice non scritto della “brava bambina”, in seguito della “brava signorina”.
La libertà in una donna è vista come una colpa, mentre in un uomo è una caratteristica intrinseca, che non può essere espropriata poiché gli spetta di diritto. Nessun bambino sarà mai rimproverato perché corre “come un selvaggio”, anzi, sarà elogiato per la sua ottima forma fisica, la sua forza, la sua energia; non gli sarà chiesto di portare il piatto in tavola, né sarà obbligato a inutili costrinzioni - palesi già sin dall’abbigliamento, calze, scarpe in vernice, inutili lacci e fiocchetti - che alle femmine sono imposte sin dalla nascita.
In questa poesia Audre Lorde fa luce proprio su questo aspetto: sulla schiavitù invisibile che caratterizza la vita delle donne, in ogni parte del mondo, senza distinzione, persino tra coloro che si sentono più emancipate.
La poesia Chi ha detto che era facile è divisa in tre parti: la prima, generica, introduce la metafora del tree of anger, l’albero della rabbia, la seconda parla in maniera universale a nome di tutte le donne, mentre la terza è alla prima persona singolare e traspone la verità ineludibile, personale, di un “io singolare proprio mio”.
La composizione lirica di Lorde sembra obbedire alle regole grammaticali dello slang, è scritta seguendo la metrica del verso libero, quindi con versi di lunghezza non uniforme, ma vi sono presenti numerose rime, semi-rime e allitterazioni e potrebbe essere accostatata a un brano di Freestyle nella cultura rap.
Non è poi molto diversa da un’opera di street art, ha lo stesso spirito sovversivo di un graffito compiuto nella clandestinità, col favore della notte, che rivendica il proprio diritto di esistere nello spazio urbano ed emerge come uno sfregio sulla superficie lucida e composta della città. Le poesie di Lorde sono graffiti di parole, grida silenziose che rivendicano il proprio diritto a essere ascoltate e sembrano mordere le logiche di un mondo concentrato unicamente sul proprio progresso alimentando, così, un’ingiustizia senza fine.
Scopriamo testo, analisi e commento.
“Chi ha detto che era facile” di Audre Lorde: testo
Ha così tante radici l’albero della rabbia
che a volte i rami si spezzano
prima di dare i frutti.Sedute a Nedicks
le donne si radunano prima della marcia
discutendo dei vari problemi causati dalle ragazze
che assumono per sentirsi libere.
Un barista quasi bianco ignora
un fratello che aspetta servendo prima loro
e le donne non notano e neanche rifiutano
i piaceri più sottili della propria schiavitù.
Ma io che sono incatenata al mio specchio
tanto quanto al mio letto
vedo le cause nel colore
tanto quanto nel sessoe siedo qui chiedendomi
quale me sopravvivrà
a tutte queste liberazioni.
“Chi ha detto che era facile” di Audre Lorde: testo originale
There are so many roots to the tree of anger
that sometimes the branches shatter
before they bear.Sitting in Nedicks
the women rally before they march
discussing the problematic girls
they hire to make them free.
An almost white counterman passes
a waiting brother to serve them first
and the ladies neither notice nor reject
the slighter pleasures of their slavery.
But I who am bound by my mirror
as well as my bed
see causes in colour
as well as sexand sit here wondering
which me will survive
all these liberations.
“Chi ha detto che era facile” di Audre Lorde: analisi e commento
Non c’è niente di facile nell’essere contro. Si rischia di passare prima per una ribelle e, poi, per una fanatica. La metafora dell’albero della rabbia introdotta da Lorde mostra la personificazione naturale di chi non riesce ad adattarsi, un albero dalle radici deformate che è così gravato dal proprio peso da non riuscire a dare frutti. Bisogna tuttavia impedire a quei rami di cedere al peso dell’ingiustizia, di spezzarsi. Questa la raccomandazione di Audre Lorde che successivamente declina la sua metafora in una scena di vita quotidiana, calandosi nell’America a lei contemporanea.
Nedicks è il nome di una celebre catena di fast food newyorkese; Lorde immagina le donne lì radunate in attesa di prendere parte a una marcia femminista. Siamo negli anni Settanta, il momento più caldo della manifestazione quando il femminismo è al vertice della sua potenza contestatrice. Le donne si radunano davanti a Nedicks e iniziano a discutere del “prezzo della libertà”: ora possono lavorare, osservano, sono persino assunte nei fast food, eppure restano sempre, in qualche maniera, sottomesse allo sguardo maschile, inserite nell’ambito circoscritto di dominazione degli uomini. L’esempio è riportato da un atteggiamento che potrebbe passare per galanteria, mentre invece è un palese indizio di sopraffazione e discriminazione: il barista ignora un cliente uomo (tra l’altro di colore, infatti Lorde lo chiama “fratello”, Ndr) per servire prima le donne bianche, loro ne sono piacevolmente sorprese, un poco compiaciute, inconsapevoli che quel gesto di fatto alimenta, in maniera sotterranea, anche la loro “schiavitù”.
Siamo nella New York degli anni Settanta, in un’epoca a tutti gli effetti, “moderna”, eppure il trattamento delle persone di colore si rivela ancora problematico, così l’atteggiamento nei confronti delle donne in quanto tali: in quel gesto, compiuto dal barista forse in maniera inconsapevole, in quanto certi comportamenti sono interiorizzati e frutto di una cultura, di un’educazione, si rende manifesta una doppia discriminazione: razziale e sessuale, ovvero la radice stessa del femminismo intersezionale.
Lorde osserva, tra le righe, che le donne bianche non rifiutano l’uomo che le serve per primo, anzi, apprezzano il gesto: questo è uno dei problemi centrali sviscerati dalla poesia attraverso un verso chiave.
And the ladies neither notice nor reject
Il femminismo, nella visione di Lorde, non poteva escludere le donne di colore. Lei si definiva “scrittrice nera, femminista e guerriera” e questo suo ritratto emerge in maniera lampante nell’ultima parte della poesia quando l’Io prende il posto del loro.
Dicendo Io in maniera così decisa, quasi violenta, Audre Lorde fa notare di essere inchiodata alla sua identità: allo specchio che la mostra come una donna nera, al letto - sede della vita intima, privata - che la rivela come una donna lesbica, queste sono le cause del femminismo intersezionale: il colore della pelle, il sesso femminile, l’orientamento sessuale, tutte e tre queste caratteristiche sono causa di discriminazione. Lorde ribadisce di essere stata costretta a subire ingiustizie, nell’arco della propria vita, proprio a causa della sua identità, del suo “essere sé stessa”.
L’idea di liberarsi, di poter essere pienamente sé senza subire discriminazioni, le fa quasi paura: sarà davvero sé stessa se non sarà discriminata? Potrà essere “pienamente sé stessa” senza rinunciare a nessuna declinazione del suo Io e considerarsi, al contempo, libera?
L’ultimo verso della poesia è decisivo:
which me will survive
all these liberations.
Lorde fa notare che la sua identità non è ancora liberata, così come lei non può ritenersi completamente libera in un mondo che, a tutti gli effetti, è ancora diviso nonostante i movimenti per i diritti civili e le marce femministe.
Credo che la poesia di Lorde rivolga un interrogativo ancora aperto a chiunque si accosti alle sue parole. Ci spinge a indagare, forse addirittura a riformulare, la nostra visione di libertà - d’un tratto, sottoposta all’analisi spietata di questi versi - ci appare ristretta, limitata. Comprendiamo che c’è un albero della rabbia che cresce in ciascuno di noi, alimentato da un furore sordo per tutte le ingiustizie che vediamo nel mondo, senza riuscire a porvi rimedio.
Dobbiamo sperare che quel tree of anger, quell’albero della rabbia, non si spezzi e dia finalmente i suoi frutti.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Chi ha detto che era facile”: la poesia femminista di Audre Lorde
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