Perché scriviamo in maniera diversa la lista della spesa da una lettera d’amore? Oppure, più seriamente, un saggio da una poesia o questa da una prosa? Per tentare una risposta, bisogna comprendere la relazione esistente tra le parole e le cose, tra linguaggio e mondo.
Non sempre vi è stato un chiaro confine tra i diversi linguaggi associati ai diversi tipi di messaggio. Non è necessario andare molto indietro, basta riflettere sulla struttura lessicale del romanzo storico del XIX^ secolo; le decine di pagine sulla filosofia della storia contenute in Guerra e Pace sarebbero isomorfe a un eventuale saggio, scritto da Tolstoj, sullo stesso argomento. L’addio monti non presenta un tessuto linguistico molto diverso da quello de Gli inni sacri e, in generale, I Promessi sposi profumano di un’opera di filosofia morale.
Le parole e le cose in letteratura
La cesura tra i diversi tipi di espressione e la congerie dei linguaggi possibili si è manifestata storicamente in due fasi.
La prima – nata con l’idea nietzschiana che non ci sono fatti ma solo interpretazioni, ripresa da Gadamer e Derrida - è nella direzione che procede dal significante al significato, cioè dal Libro al Mondo e non viceversa. In tal senso, ogni fenomeno di comprensione di uno scritto, non è mai neutro, ma sempre condizionato dall’habitat e dal punto di vista del lettore. Nella stessa direzione si è espresso Roland Barthes, secondo cui il Senso crea il Libro, il Libro crea il Mondo. Seguendo questa linea critica, il segno viene prima del reale ed è questo a essere funzione di quello, non viceversa.
La seconda, è rappresentata dal punto di discontinuità delle Grande Guerra e dall’abisso dell’incertezza al quale da allora l’Umanità si sente condannata: dopo il crollo degli equilibri del mondo antecedente non c’è più un sopra e un sotto, un di qui o di là e le torce della razionalità con cui illuminiamo il mondo sono divenute flebili fiammelle.
La letteratura ha, ovviamente, ritratto lo iato tra desiderio di verità e incertezza, tra determinismo e probabilismo: L’uomo senza qualità di Musil - (rimasto incompiuto e uscito in tre volumi nel 1930, 1933 e 1943), bibbia del decadentismo - ne è forse l’espressione più elevata; in esso il neopositivista Hulrich perde la fede nella logica, nella matematica e sente di vivere in un mondo stocastico; ma il linguaggio di Musil è ancora ancorato ai vecchi schemi, la rottura del significato non ha sancito quella del significante; tale avventura iconoclasta è stata, invece, provata da Joyce: nell’Ulisse (1922) il linguaggio è il vettore che consente all’uomo di parlare con sé stesso (stream of consciousness), senza la censura delle regole grammaticali, sollevando le criticità, i dubbi, l’angoscia dell’umano, senza proporre soluzioni.
Si osservi di come implicita nell’impostazione del grande romanzo storico ottocentesco, vi sia un’idea di letteratura rappresentante, senza equivoci e necessità interpretative, la totalità della storia, cioè lo spaccato dell’intera società del periodo; al contrario nell’impostazione che si riferisce a Joyce, si coglie l’enfasi posta sul frammento, sull’atomo di mondo, sul residuo contrapposto alla totalità: un ulteriore limite alle possibilità logico-aggregative del pensiero.
Pertanto, il linguaggio di un saggio e di un documento tecnico è funzionale al significato che si vuole trasmettere, non deve suscitare nessuna ambiguità; ambiguità che è invece uno dei tratti fondanti della poesia e del racconto. Se si vuole rappresentare il disagio umano, il nostro arretrare di fronte all’impossibilità logica di comprendere e, conseguentemente, d’agire, il nostro dire dovrà essere discontinuo, non tassativo, balbettante come il discorrere di un ubriaco. Siamo di fronte alla cittadella gödeliana dell’impossibilità e la parola rappresenta questo scisma delle regole.
Il linguaggio dal punto di vista di Umberto Eco
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Quindi, da James Joyce in poi, il mondo della letteratura non è stato più lo stesso. Siamo finalmente giunti alla bella racconta di saggi di Umberto Eco, Confessioni di un giovane romanziere, (La Nave di Teseo, ottobre 2023, trad. di R. Fedriga e A.M. Lorusso). Il libro - tratto da una serie di lezioni tenute da Eco nel 2008 per la Emory University di Atlanta – comprende quattro saggi riferiti al tessuto linguistico della letteratura.
Nel primo saggio, Scrivere da sinistra a destra, la risposta di Eco alla domanda che m’ero posto in incipit è la seguente:
… in un’opera teorica si cerca di solito di dimostrare una tesi o di dare una risposta a un dato problema, mentre in una poesia o in un racconto si vuole rappresentare la vita in tutta la sua ambiguità, o addirittura incoerenza. Si vuole cioè mettere in scena una serie di contraddizioni, rendendole vivide ed evidenti. Gli scrittori creativi chiedono ai loro lettori di cercare una soluzione, senza offrir loro alcuna formula definita.
Quando la letteratura vuole essere prescrittiva, come lo è stata nel corso del XIX^, il significante aggiunge senso al significato; quando questo vuole rappresentare un deficit cognitivo, una sospensione del giudizio (e della verità), come dopo lo scisma di Joyce, il significante, invece, deve aumentare questo deficit. In tutti i casi, il linguaggio aggiunge amplifica il messaggio contenuto nel significato.
In poesia le parole sono così difficili da tradurre perché quello che conta è anche il loro suono e il loro ritmo, per non dire dei loro significati multipli – ed è la scelta delle parole che determina il contenuto. Invece nella narrativa accade l’opposto: è l’universo, il mondo che si è costruito, e gli eventi che vi accadono, che determinano il ritmo verbale, lo stile, le scelte lessicali.
Per cui:
…la costruzione del mondo narrativo determina lo stile linguistico.
In realtà anche lo stile linguistico ha una funzione vettoriale per il significato, nel senso che in letteratura, al contrario che nella saggistica, lo stile dice di più di quanto si enuncia sul mero piano lessicale, insomma in letteratura ha rilievo non solo ciò che si dice ma anche come lo si dice e ciò dipende dalla costruzione del reale, con i nessi tra cose, che lo scrittore ha in mente. Per cui, si deve condividere l’idea di Proust che lo stile dello scrittore, come il colore del pittore, è una questione non di tecnica ma di visione (citato in S. Brugnolo, D. Colussi, S. Zatti e E. Zinato, La scrittura e il mondo, pag. 69).
Spunti di riflessione nel libro di Umberto Eco
Nel libro di Eco, segue il saggio Autore, testo e interpreti, che contiene altri spunti di riflessione sul modernismo, l’autore ci svela alcuni suoi trucchi del mestiere di scrivere:
“Io uso certamente almeno due tipiche tecniche post-moderne. Una è l’ironia intertestuale, per cui si fanno riferimenti più o meno trasparenti ad altri testi famosi; la seconda è la meta narrativa, ovvero la riflessione che un testo fa sempre intorno alla sua stessa natura, dove l’autore si rivolge al lettore.
All’esistenza dei personaggi della letteratura, Eco dedica il terzo saggio, Alcune osservazioni sui personaggi immaginari:
“Nessuno (almeno credo) può ragionevolmente negare che Adolf Hitler e Anna Karenina siano due diversi tipi di entità, ciascuna con un diverso status ontologico. Io non sono certo … un testalista, cioè qualcuno che crede (come fanno alcuni decostruzionisti) – che non esistono fatti ma solo interpretazioni, cioè testi.”
Anche i personaggi di fantasia hanno un qualche tipo di esistenza, ogni nostra costruzione mentale corrisponde a una cosa, anche se tale cosa può non esistere nel mondo reale. Heidegger ebbe a dire – Lettera sull’umanismo, 1946) che, con l’eccezione dell’Uomo, tutte le categorie sono ma non esistono, in quanto non presentano l’essenza dell’uomo che riposa nella e-sistenza, intesa come apertura all’essere.
L’ultimo saggio è Le mie liste, ovvero collezioni, cataloghi, di cose, persone, idee, che suscitano l’idea di unità a un insieme di oggetti che pur dissimili sono però:
“Soggetti a una pressione contestuale – nel senso che sono correlati perché si trovano tutti nello stesso posto, oppure perché costruiscono l’obiettivo di un progetto.”
Quando leggiamo una poesia o un romanzo sentiamo che certe folli costruzioni, nei cui dedali amiamo perderci, sono vere pur essendo irrazionali; ciò avviene perché nel mondo della letteratura sospendiamo il criterio del giudizio logico che adoperiamo nella vita e utilizziamo un’anti-logica che è non illogica ma logica secondo altri assiomi, quelli che ci fanno sembrare le disuguaglianze come similitudini e le consonanze come identità: questa colorata menzogna ci fa parere la nostra esistenza come sogno.
In questo meraviglioso viaggio, i segni della letteratura, la meccanica dei suoi linguaggi, ci fanno da indispensabile viatico, da corroborante pan di via.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Confessioni di un giovane romanziere” di Umberto Eco: una riflessione sulle parole e le cose
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