Tra le ragioni che legittimano il valore e l’esemplarità di Confiteor, opera teatrale in due atti di Giovanni Testori (1923- 1993) , occorre considerare innanzitutto la peculiare qualità del linguaggio scenico ed espressivo utilizzato dall’autore.
La parola: al cuore del teatro di Testori
Nel teatro testoriano la parola è l’elemento quintessenziale, “ciò in cui l’uomo si presenta, prima di ogni gesto e oltre ogni gesto” come Testori stesso ebbe modo di spiegare in una lunga e illuminante conversazione con lo scrittore Luca Doninelli (Conversazioni con Testori, Silvana editrice, 2012), precisando che "il verbo che si fa carne, la Parola incarnata è la prima, fondamentale espressione dell’uomo”. Di questa corporeità della parola rivissuta come avvenimento umano in ogni momento della creazione poetica si ha percezione in ogni espressione del multiforme talento di questo autore, che fu brillante e acuto critico d’arte (contribuendo a far conoscere in Italia l’arte di Francis Bacon), pittore lui stesso, poeta e narratore, e ancora elzevirista e polemista dotato di grandezza di visione e coraggio nell’avanzare e difendere idee controcorrente rispetto ai dogmatismi e alle strettoie ideologiche del suo tempo. Tuttavia, è nel teatro che la sensibilità e la forza interiore della sua intelligenza si manifestano in assoluta libertà e pienezza.
Fin dagli esordi il linguaggio drammaturgico testoriano emerge e si distingue da ogni altro esemplare precedente e coevo per una coincidenza non soltanto espressiva, ma ontologica, tra parola e voce, laddove la parola nell’atto stesso di essere pronunciata si fa gesto, causando un attrito drammatico con la realtà con cui viene a collidere, a impastarsi, a congiungersi. Ed è come se questo coito della parola con la materia del reale ne lasciasse affiorare in superficie la nudità, mostrandone senza falsi pudori le imperfezioni, le ferite ancora suppuranti, le cicatrici. Per questo, ascoltando la parola testoriana se ne ricava un’impressione di allarme e sgomento, come se il principio di una frana, uno smottamento nella sua irruenza fatta voce producesse uno iato, una fenditura in cui improvvisamente la parola tace, e qualcos’altro comincia a parlare: il Tempo, la coscienza, un antico e originale sentimento di peccato e di redenzione; un prorompere inconsulto e compartecipe di odio e di amore, di impurità e innocenza. Ciò che accade e si incarna nel verbo è un fatto, e resta scolpito, cicatrizzato nel corpo, nella materia dell’uomo e del tempo umano, schiudendo al contempo nella bestemmiante, degradante fragilità della carne un altro spazio, dentro e oltre la parola, in cui la salvezza, per un dono irrimediabile di Grazia, è già avvenuta.
Dall’Amleto a Confiteor
Non sorprende dunque (seppur spiazzante e sconvolgente ad ogni impatto con la lettura e l’ascolto) che la cifra espressiva testoriana prescinda dalla ricercatezza epurata della forma, perseguendo piuttosto la compiutezza delle sbavature, delle incongruità; proseguendo ed estendendo l’ardua lezione dell’Amleto shakespeariano (sarebbero innumerabili del resto gli Amleti rifatti, ricreati, reincarnati da Testori), modello di una scrittura refrattaria alla diligenza e alla regolatezza formale che esce stravolta dall’urgenza di un’istanza nativa ulteriore alla mera rappresentazione, giacchè porta in sé, come afferma Testori nella conversazione con Doninelli, “qualcosa di straordinario di cui non esisterà più simile”.
La medesima istanza riscontrabile nell’incipit dell’Amleto (“Bella notte”; “Bella notte davvero”) battezza, fin dalle battute inaugurali, con una forza evocativa tanto più sorprendente quanto banalmente referenziali possano suonare quelle parole , la voce dei protagonisti di Confiteor:
“Rino: Era lì.
La madre: Lì, dove?
Rino: Lì.
La madre: Non è vero. È solo la tua testa, Rino, che è un po’ stanca…
Rino: Cosa vuoi sapere, tu, della mia testa? Se dico che era lì, è perche lì era…”
La scena appare subito scarna e prosciugata. “All’apertura del sipario (recita la didascalia introduttiva) madre e figlio sono seduti, a breve distanza, su due sedie”. Nessun arredo, a parte le due sedie. L’essenzialità del corredo scenico suggerisce istantaneamente l’impressione di un baratro, un vuoto da cui i personaggi parlano e crudamente confliggono, riflettendo l’uno nell’altra le loro esistenze deformate dal dolore, dalla colpa e dal rimorso, ma come se quel baratro fosse al contempo una placenta in cui un nuovo seme di vita si ostinasse a prendere forma, a nascere.
E per l’appunto questo magma incoerente e in apparenza inestricabile scandisce lo sviluppo del dramma: il senso di una nascita che misteriosamente germina, avviluppandosi e nutrendosi del senso disperato di una fine. Riprendendo ed esasperando fino a un punto estremo di tensione modalità e tecniche del metateatro di stampo pirandelliano (il modello dei Sei personaggi in cerca di autore è del resto costantemente presente all’ispirazione testoriana), con un’operazione strenua di sottrazione, Testori, prosciugando fino all’osso l’unità di tempo e di azione del dramma, ottiene un effetto paradossale di anacronismo: moltiplicare i punti di vista della vicenda, stravolgendo le dimensioni del tempo e lo spazio, dilatandoli ben oltre il perimetro del palcoscenico, nelle profondità più oscure e insondabili della coscienza.
In tal modo il proscenio si trasforma davanti allo sguardo sbigottito degli spettatori, senza apparenti cambiamenti di scena, e diventa contemporaneamente la maceria di una casa distrutta, un tribunale, e insieme la cella della prigione in cui Rino è confinato a scontare la pena. Sul piano temporale l’anacronismo agisce nella voce, delirante e lucida, del personaggio, innescando un automatismo come quello dei sogni, che lo costringe a rivivere simultaneamente le sequenze del suo dramma, confondendone la cronologia e l’ordine logico, tanto da apparire allo stesso tempo, e senza muoversi dalla sua sedia, carnefice e indiziato, detenuto in attesa di giudizio e condannato all’ergastolo, seduto accanto alla madre nella stessa stanza come se nullaa fosse ancora accaduto e isolato nella sua gabbia, ancora vivo nella sua carne straziata dal rimorso e privo di vita, sigillato nella sua bara pronto per essere trasferito dal carcere al cimitero. In questa simultaneità che è il tempo purgatoriale dell’attesa, sospeso tra delitto e castigo, Rino sconta fino in fondo la sua pena, mettendola in scena, diventandone a tutti gli effetti (e in un senso, diremmo, etimologicamente compiuto) l’attore.
Il teatro come spazio per la catarsi
Il teatro diventa dunque lo spazio di una catarsi, un cosmo conchiuso e assoluto in cui la dimensione dell’umano, sottoposta alla pressione della parola, è al contempo schiacciata nel proprio destino e violentemente sollecitata a cercare la propria liberazione. Tutta la trama della vicenda rappresentata si potrebbe addirittura condensare in questo nodo drammatico, esemplificato già nel titolo dell’opera, di confessione e catarsi, che rimanda all’origine del teatro stesso, che, come ricorda Testori, nasce dal
“bisogno di pronunciare una richiesta di perdono attraverso una confessione, la confessione di fatti avvenuti. Tu non preghi solo perché congiungi le mani e pronunci delle parole. Allo stesso modo, la confessione è un fatto, non si può teorizzare, o accade o non accade. Il Teatro è questo”. (da Conversazioni con Testori)
Drammatizzare è dunque dare voce, attraverso una parola incarnata in un fatto, a una preghiera che si eleva non attraverso la giunzione delle mani ma come un grido dalle cavità di un corpo trafitto, di un’anima piagata. La disperata confessione di Rino, il dolore disarmato della madre, valicano il perimetro delle loro coscienze dilaniate, dei loro corpi straziati, e ricadono come la lava di un vulcano sulla platea, investendo anche il pubblico, strappandolo alla sua compostezza, trascinandolo nel gorgo, nella saetta, rendendolo suo malgrado compartecipe del dramma, nella condivisione di orrore, rifiuto e compassione.
Cosa deve espiare Rino?
Tempo prima infatti, Rino ha ucciso il fratello minore, nato con una minorazione mentale che gli impediva di comunicare normalmente, costringendolo a esprimersi con versi e borborigmi infantili (“dugrugnì dugrugnà”). Questo difetto della parola (ancora e sempre la Parola, epicentro di ogni dramma) e la separazione dal fratello, ben presto costretto a lasciare la casa per essere internato in una casa di cura, avevano prodotto in Rino dapprincipio un’irritazione, un disamore concresciuto nell’eccesso dell’amore e divenuto ossessione, smania, intolleranza verso la demenza del fratello, così intollerabilmente discordante con la sua rappresentazione dell’amore e del suo intransigente sentimento di giustizia. E che spinge Rino fino al delitto, compiuto durante una visita alla casa di cura e una passeggiata in montagna con Nando.
Successivamente Rino uccide con il coltello anche un compagno del fratello che li aveva seguiti e assistito al delitto, forse per curiosità, o per spiarne le mosse. Il duplice omicidio, volontario e consapevole, gli appare all’inizio un gesto liberatorio e risarcitorio: “Non sembrava più niente e nessuno” confida infatti egli alla madre incredula.
“Era tornato lui, solo lui, il Nando. E io, ecco, io, con queste mani, non avevo assassinato né Cristo, né una sua immagine o una sua ossessione, ma solo lo sgorbio che tu e lui v’eravate prestati a lasciargli fabbricare”.
È questa dunque la macchia, il peccato originale che innesca il dramma vero, tutto interiore del personaggio, sprofondandolo nell’abiezione, nella solitudine, nell’esclusione che nel fratello gli erano parse irresistibili? Il fratricidio perpetrato da Rino era in realtà nei propositi un deicidio? Uccidere, nel corpo imperfetto del fratello, "per liberarlo dal destino che l’ha voluto simile a un maiale”, un’ingiustizia tanto più intollerabile perché originata da una volontà divina? Di quel Dio che morendo sulla croce si è fatto emblema vivente e dolente di ogni umana imperfezione, fragilità e ingiustizia?
Tuttavia, l’assassinio di Cristo identificato contemporaneamente nel fratello menomato e nel padre assente (dalla vita familiare e dalla scena, presentificato unicamente nel rancore, mediante epiteti spregiativi quali: “il bel coso”, “il cognominante”; “il chiavante”) ha comportato la conseguente distruzione anche della sacralità della famiglia, intesa come luogo cristiano (fondato in Cristo) di ogni possibilità umana di affetto, aiuto, solidarietà. Più che per effetto della Legge e della Giustizia, del processo e della condanna, la perdita del valore umano, e della libertà, è per Rino essenzialmente la perdita di questo luogo cristiano e umano in cui riconoscersi e consistere. Uccidendo il fratello, Rino compie un atto di ribellione contro i modelli più alti e sacri dell’autorità, divina e umana; forse illudendosi per un attimo di aver ripristinato una giustizia, ridando nella morte una dignità e un valore all’esistenza dello sventurato fratello.
"Come facevi a credere", grida infatti Rino alla madre, "o anche solo a pensare, che fosse vita quella che gli avevi dato, e che dunque, bisognava accettarla, amarla, benedirla? D’accettarla e d’amarla forse sarebbe riuscito anche a me, e senza bisogno di riferirmi ad altro che non fosse il caso che aveva voluto farlo nascere dallo stesso ventre e nella stessa casa... Ma, accettandolo e amandolo, com’ho tentato di fare per anni e anni, cos’era cambiato, e cosa sarebbe cambiato, da lì in avanti, di lui e per lui?"
E con questa spietata autocoscienza che gli pesa sul cuore, a Rino, come un Caino redivivo, non resta che incamminarsi volontariamente in un viaggio disperato senza ritorno; una via crucis che si snoda senza interruzione come una “cieca, insensata bestemmia” che lo costringe a ricalpestare a una a una le orme della sua colpa, cercando l’espiazione nell’accettazione della propria empietà, anche mediante la denigrazione e gli abusi dei suoi non meno indegni compagni di carcere; umiliandosi e degradandosi sempre più nell’inferno vivente che è diventato il suo corpo.
Qualcosa resiste: l’amore
Ma in questo abisso, nella dimissione di ogni valore umano, qualcosa resta, e resiste. L’amore, nella sua manifestazione più alta, e deturpabile, di Carità, che vediamo e sentiamo agire nei gesti e nella voce della Madre. Forse in nessun altro personaggio, e non solo del teatro testoriano, potremmo riscontrare una testimonianza altrettanto viva e commovente di fedeltà e coraggio radicati nella Carità. Che non viene mai meno, neanche con la solitudine e l’abbandono nella disperazione più buia; con l’indebolimento e la strematezza di un corpo invecchiato e sul punto di cedere. Lei è lì, immagine vivente e statuaria della Carità, in quel “lì”, che è la fine ma anche l’inizio, il fondo del precipizio ma anche la fondamenta di una casa che ancora può accogliere. Scolpita su quella sedia, con i grani del rosario stretti tra le dita, o finanche tra le grate di una cella, lei, la Madre, è presente; accanto alla pena del figlio, bevendone lo strazio dallo stesso calice, accogliendone il furore nel ventre, lasciandosene ferire e trapassare (“ventre bestia”, “madre porca” le urla con incessante veemenza Rino). Ed è come se la vedessimo salire, umile e maestosa, con il figlio, con il Cristo reietto, con l’umanità tutta, lei stessa sulla Croce, per avverare e riscattare tutto quel dolore, per spartire fino all’ultimo grido, l’ultimo spasimo, le briciole amare di una confessione che è pure preghiera, offerta, di misericordia e di perdono.
In confronto alle parole schiumanti, ribollenti di Rino, simili a un torrente in procinto di esondare, le povere parole materne sembrano un argine inconsistente; appena un conato, di sillabe, di frasi smozzicate ("Fermati! Rino, ti supplico, basta!”) spezzate e trascinate dalla piena. Eppure nella loro evidente inermità contengono una forza che riesce a convertire quella rabbia, a trasformarla in una forma seppure inconciliata di pietà. Come se invocando instancabilmente il figlio, chiamandolo con il suo nome (“il mio Rino”), la Madre avesse trovato il modo, l’unico possibile, di ripristinare e rinnovare quel rito di unzione, quel battesimo che nella scelta del nome fonda l’identità dell’individuo e il legame indissolubile con il Divino; quel legame che il figlio, reso infermo dalla colpa e dal rimorso aveva cercato ostinatamente di spezzare.
Le parole maieutiche della Madre dolorosa, incrinate ma salde nella fede e nella preghiera (l’opera si chiude proprio con le parole della Madre che riprende la recita del Rosario), ricongiungono il figlio a quel filo tenero e sacro che è la vita, alla paternità e fraternità con quel Cristo che aveva tentato di assassinare, e al quale sempre più pare rassomigliare, nella condivisione della Croce, e della Mmrte che è l’atto misterioso e supremo della vita stessa.
Il rapporto con gli anni ’70 e con il vissuto personale di Testori
Strutturato in due atti (morte e resurrezione?) il Confiteor è un testo drammatico che riflette la qualità di un tempo di disinganno e disamore, al crocevia tra gli aspri conflitti ideologici e le violenze degli anni ’70 e il falso benessere e edonismo del decennio successivo. È su questo crinale drammatico, storico e personale (il dolore per la morte della madre dell’autore e un lungo dissidio interiore che lo avvicinò alla fede e alla religione cristiana) che il Confiteor testoriano viene a situarsi, nella consapevolezza di un problema esistenziale, di una crisi profonda dei valori umani che intaccava come mai prima era accaduto la famiglia, il rapporto genitori-figli, l’autorità e il sentimento religioso, al punto da profilare il rischio di una società sempre più disumanizzata, dissociata dalla Realtà che il Testori polemista aveva denunciato e analizzato con severa lucidità in tutte le sue piaghe in quegli stessi anni, in particolare nei suoi articoli apparsi sul “Corriere della Sera”. Ve n’è uno in particolare, che s’intitola eloquentemente La Realtà senza Dio, in cui la riflessione di Testori d’improvviso sembra sciogliere l’amarezza e lo sconforto (come le parole della Madre di Rino) in un accento di umanissima pietà:
“Dio rifiutato è un vuoto che nessuna demagogia del benessere può colmare. Quel vuoto a riempirlo sarà solo il corpo infermo della materia impazzita e della impazzita solitudine.”
Dentro questo impazzimento in atto, il teatro resta per Testori il luogo drammatico di una resistenza dell’umano, che si esercita in una parola capace ancora di incarnarsi, e sanguinare; di amare la realtà nella sua contraddittoria bellezza, nella sua impura, straziata verità.
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Confiteor: analisi dell’opera di Testori. Il rapporto tra teatro e parola
Lascia il tuo commento