Il giudice uscì dal palazzo di giustizia che era già sera [...] Ogni volta che varcava la soglia di quel palazzo, la parola “inquisizione” lampeggiava nella mente del giudice. Per un paio di secoli lì furono giudicati i bestemmiatori, le fattucchiere, gli eretici, spesso di nessuna eresia; da quel portone si erano snodate per la città le processioni degli auto da fé; fino al rogo che sarebbe stato acceso non lontano [...] Dall’Inquisizione lo Stato – lo Stato borbonico, lo Stato sabaudo – aveva ereditato, ovvia la fatalità nella carenza di opere pubbliche, quel palazzo […] ”Dopotutto, significa dare un bel peso alle proprie opinioni, se per esse si fa arrostire vivo un uomo.” Grandi parole: tutto è opinione, di relativo o irrisorio valore; tranne quella che non si può fare arrostire vivo un uomo soltanto perché certe opinioni non condivide...
Questo è il brano del romanzo al quale Sciascia, a dieci anni di distanza da Candido, sorprendentemente ritorna. Egli stesso racconta che sua intenzione sarebbe stata di proseguire nella saggistica, ma messosi a scrivere gli era “venuta fuori la battuta di un dialogo”. Nasceva così il racconto intitolato Porte aperte (Adelphi, Milano, 1987).
Essendo presenti molte tracce saggistiche, si è parlato di “antiromanzo filosofico” dove, dal rifiuto della condanna della pena di morte, si giunge ai tipici argomenti dell’universo sciasciano quali il giudicare, la violenza legalizzata e repressiva, la riflessione sulla vita e sulla morte da leggere “come un unico grande libro sulla giustizia” (Ernesto Lupo).
Ironicamente il titolo deriva in primo luogo da un’espressione usata fino agli anni Sessanta dai nostalgici del regime fascista. Dicevano che al tempo del Duce si dormiva “con le porte aperte”: c’era allora la sicurezza di non essere danneggiati nella propria abitazione grazie anche alla pena di morte, ripristinata dal codice Rocco per assicurare l’ordine sociale.
“Porte aperte” di Leonardo Sciascia: trama, analisi e significato
La vicenda trova lo svolgimento da un fatto realmente accaduto a Palermo: nel 1937 il giudice Salvatore Petrone, racalmutese, in difformità alla legge in vigore, desiste dal condannare un triplice omicida alla pena di morte senza cedere alle pressioni dell’opinione pubblica e alla volontà dei potenti del regime. Sciascia lo chiama con quell’appellativo non tanto per una sua bassa statura o per il ruolo a latere nel processo, quanto per farne spiccare la grandezza:
[...] E ancora mi è avvenuto di chiamarlo il piccolo giudice non perché fosse notevolmente piccolo di statura, ma per una impressione che di lui mi è rimasta da quando per la prima volta l’ho visto. Era insieme ad altri; e, indicandomelo tra gli altri come il più piccolo, qualcuno mi disse: “Aveva una brillante carriera da fare, se l’è rovinata rifiutando di condannare uno a morte”; e mi raccontò sommariamente e con qualche imprecisione la storia di quel processo. Da quel momento, ogni volta che poi l’ho visto, e nelle poche volte in cui gli ho parlato, il dirlo piccolo mi è parso ne misurasse la grandezza: per le cose tanto più forti di lui che aveva serenamente affrontato.
Uomo di tenace concetto il piccolo giudice, la cui descrizione fisica e comportamentale somiglia al nostro scrittore. Di solito taciturno e di poche affilate parole, non tiene in conto il proprio futuro in nome di un principio sacralmente laico. La sua morale di “scettico credente” nasce da un’assoluta fiducia nell’umanità. La sua determinazione, conforme al valore della vita, gli causa la solitudine in famiglia:
Questo era, secondo i suoi genitori, i suoi fratelli e sua moglie, il suo principale difetto: il credere, fino a contraria e diretta evidenza, e anche all’evidenza guardando con indulgente giudizio, che in ogni uomo il bene sovrastasse il male e che in ogni uomo il male fosse suscettibile di insorgere e prevalere come per una distrazione, per un inciampo, per una caduta di più o meno vaste e micidiali conseguenze, e per sé per gli altri. Difetto per cui si era sentito vocato a fare il giudice, e che gli permetteva di farlo. E non che non avesse le sue cattiverie, le sue malignità, le sue impuntature di amor proprio; ma le esauriva – almeno così credeva e se ne confortava – in una sfera in una sfera che noi potremmo dire letteraria caricandola invece, benché non gravemente, di altro senso: poiché la letteratura non è mai del tutto innocente. Nemmeno la più innocente.
Le “porte aperte”, vera impostura della propaganda del regime, vanno ricercate anche altrove. Onofri, ricavando i dati dal testo, fa l’elenco dettagliato di altri significati. Erano state “porte aperte” quelle del socialismo da cui “scioltamente si entrava ed usciva” prima dell’avvento di Mussolini; la porta aperta del suicidio che si spalancava come unica soluzione all’assassino del romanzo; le “vere porte aperte” di Palermo, “quelle che soltanto l’amicizia apriva”; la “porta aperta al Brennero che cominciava a inquietare”, da cui pareva già entrassero i tedeschi, “stormi del malaugurio”. Il piccolo giudice è sostenuto dalla lettura di opere: Tolstoj, da cui gli viene l’idea dell’opposizione alla pena capitale a costo di ritrovarsi da soli nella difesa del diritto alla vita; Vitaliano Brancati, che dice:
Perché un canto di Milton o di Leopardi sulla libertà, o il libro di un filosofo proibito non volò in soccorso di questo poveruomo, trafitto da tutte le sofferenze che un’anima onesta può ricevere dall’oppressione, e tuttavia incapace di dire perché soffrisse?
Dostoevskij che nell’Idiota esprime “contro la pena di morte il più alto discorso che mai sia stato fatto”.
Consistenti gli intellettuali quali Argisto Giuffredi e Giuseppe Pitrè. Il primo è l’autore del libretto Avvenimenti cristiani, pubblicato nel 1591, in cui “due secoli prima di Beccaria” aveva presentato le proprie preoccupazioni in merito alla tortura e alla pena di morte su possibili innocenti (quasi anticipando quella che sarebbe stata la sua fine, vittima della tortura insieme al poeta Antonio Veneziano). Di Pitrè, il cui volume Usi e costumi viene ricordato dal giudice, Sciascia si serve per indirizzare l’attenzione al culto per le anime dei corpi decollati, ovvero dei “giustiziati per mannaia o per forca”: insieme alla devozione per le anime purgatoriali, il medico-demologo ha rappresentato una “inconscia ma vigorosa reazione alla pena di morte”. Eppure, nell’analisi “condotta in venti pagine” gli manca una soluzione alla contraddizione dei siciliani: quella di
accorrere come a feste alle cosiddette giustizie e di conferire poi santità ai giustiziati.
C’è nel solitario rovello del giudice “l’orrore e il fascino del vuoto”. Glielo causa il problema del giudicare, introiettato in una dimensione tragica fino a divenire “un problema di interiore libertà”. Segue un fluire di ricordi di guerra e di morte, dalla Prima Guerra mondiale alle pugnalate ricevute da Matteotti, di cui vengono ricordate alcune frasi rivolte ai suoi carnefici.
Nel dialogo con il Procuratore, egli dice che Matteotti era libero docente di diritto penale all’università di Bologna. “E che c’entrava”, si chiede l’interlocutore, “quel particolare della libera docenza?”. Ebbene, da quel particolare era sorta nella mente del giudice una constatazione:
che Matteotti era stato considerato, tra gli oppositori del fascismo, il più implacabile non perché parlava in nome del socialismo, che in quel momento era una porta aperta da cui scioltamente si entrava ed usciva, ma perché parlava in nome del diritto. Del diritto penale.
Attraverso “vagheggiamenti e vaneggiamenti giuridici” il piccolo giudice fantastica d’incriminare i giornali mistificatori di verità che godono all’idea di devastare la sostanza del diritto.
Ecco ora il fattaccio. L’imputato ha ucciso tre persone in un breve giro di ore, in luoghi diversi:
Vittime erano state, nell’ordine delle ore, la moglie dell’assassino; l’uomo che dell’assassino aveva preso il posto nell’ufficio da cui era stato licenziato; l’uomo che, al vertice di quell’ufficio, ne aveva deciso il licenziamento.
Egli è descritto come una personalità della città di Palermo che “aveva innegabilmente avuto un potere”. Ora da processato viene, se non abbandonato, quantomeno guardato con circospezione da familiari e collaboratori. Accattivante l’immaginazione del giudice che vorrebbe renderlo invisibile. Girando e rigirando al dito l’anello, come per magia vorrebbe farlo sparire dalla gabbia, privandosi del disagio provato nel guardarlo. Il simbolo della sua angoscia è il “corpo del reato”: il pugnale sistemato in un angolo del tavolo su cui il cancelliere scriveva. Lo definisce attraverso le parole di un racconto Borges:
È più di un semplice oggetto di metallo; gli uomini lo pensarono e lo forgiarono a un fine ben preciso; è, in qualche modo eterno, il pugnale che ieri notte ha ucciso un uomo a Tarecumbó, e i pugnali che uccisero Cesare. Vuole uccidere, vuole colpire insospettato, vuole spargere sangue ancora palpitante.
Gli vengono in mente gli arditi con la sola arma del pugnale. Quando tornavano in trincea dopo aver tagliato al fronte i reticolati con le cesoie, si muoveva la fanteria. E aveva dinanzi allo sguardo gli “imberbi” soldati austriaci pugnalati nel sonno o al risveglio; e anche gli imberbi soldati italiani chiamati alla guerra nell’autunno del 1917. Ancora:
quel canto delle squadre fasciste che finiva con la promessa di “bombe, bombe / e carezze di pugnal”. Lo inorridiscono le pugnalate a Matteotti. “Carezze di pugnale”: e come si può arrivare ad accettare, ad aiutare, a plaudire una fazione che le promette a quelli che vi si rifiutano?
L’imputato ha nella gabbia, tra i due carabinieri, espressioni e atteggiamenti spavaldi e servili. Alcuni testimoni, compreso il podestà, depongono a suo favore. L’amicizia gli aveva aperto tante porte. Altri l’allontanano dalla loro vita: “una belva” per come tuonavano gli avvocati di parte civile. La narrazione, non priva del richiamo dell’orrido, ricostruisce l’omicidio della moglie. Poi quello del ragioniere Speciale, pugnalato in ufficio:
Ma nonostante l’ora che faceva deserti gli uffici, qualcuno c’era: e al grido dell’uomo colpito a morte, su per le scale era accorso, e si era imbattuto nell’imputato che ne scendeva; e costui, al chiedere degli altri che cosa fosse accaduto, aveva con noncuranza risposto: “Un pulcinella” così come Amleto, uccidendo Polonio, dice: “Un topo”. E non dalle carte istruttorie, dove era già stato registrato, ma dalle testimonianze in aula, l’episodio segnò per il giudice un quasi inavvertito avvicinamento all’imputato: grazie all’affiorare improvviso, automatico, in un certo senso gratuito, della battuta di Amleto. La materia sordida di quel processo, l’atroce e sanguinolenta miseria dei fatti, cominciò a sollevarsi e a configurarsi in tragedia. Perché negargli la tragedia, se le passioni eran quelle, se il fantasma della disperazione gli era apparso a rivelargliele, a chiedergliene vendetta? Solo che fanatismi simili la legge non li ammette [...] La legge soltanto un fantasma ammette: ed è quello della follia. Soltanto allora si ritrae dal fatto criminale, non giudica, abbandona il giudizio allo psichiatra e lascia che la pena, astrattamente – poiché in concreto è tutt’altra faccenda – sia cura.
Certamente colpevole e invischiato col Potere è l’imputato, ma il il piccolo giudice prova compassione per l’uomo che tutti vogliono morto. Stranizza il fatto che nel corso del processo non venga richiesta la perizia psichiatrica, rifiutata dall’imputato per orgoglio o trascurata dalla difesa. Il costituirsi parte civile dell’onorevole dottor Alessandro Pavolini, a nome e nell’interesse della Confederazione Fascista Professionisti e Artisti, è già per lui sentenza di morte.
Ecco il nocciolo del problema. La legge, estranea alla tragedia dell’uomo, non indaga sulle atroci motivazioni interiori, ma senza un minimo dubbio elimina chi osa ad essa ribellarsi. Dato che uno dei tre uccisi è un avvocato palermitano, personalità di spicco nell’organigramma fascista, la difesa dell’imputato sarà velleitaria e inutile. Tuttavia, il giudice comincia a sentirsi meno solo nell’opporsi alla pena di morte. Alcuni dei giurati, è vero, si erano “astrattamente” dichiarati favorevoli alla pena capitale prima dell’iter processuale, poi cominciano a vacillare non tanto per l’imputato quanto per la difesa della vita. Nasce in loro una questione di coscienza. Probabilmente anche la loro posizione sul fascismo sta mutando rispetto a prima quando non si erano mai posti il problema
di giudicare il fascismo nel suo insieme, così come non se lo erano posti nei riguardi del cattolicesimo.
Tante le cose che ora disapprovano della chiesa cattolica e del regime:
Il che accadeva in tutta Italia e per la maggior parte degli italiani. Il consenso al regime fascista, che per almeno dieci anni era stato pieno, compatto, cominciava ad incrinarsi e a cedere [...] Andava sempre peggio, insomma.
Il tendere verso una fraternità universale è visibile anche all’interno dei giurati: in loro si manifesta il dubbio sull’esistenza dell’errore giudiziario e ritengono che sia impossibile esprimere una condanna da uomo a uomo (avevano la tessera del partito allo stesso modo in cui si accostavano ai sacramenti religiosi). Ora cominciano a comprendere: si affievolisce il loro consenso al regime che, a differenza del cattolicesimo
si muoveva, si agitava, mutava e li mutava nel loro sentirsi – sempre meno – fascisti.
Con tre di loro il giudice stabilisce un rapporto di simpatia: il commerciante di generi alimentari, l’agricoltore e il professore. Particolarmente con quest’ultimo. E lo sente parlare del manoscritto di Dafni e Cloe alla Laurenziana, e della macchia d’inchiostro che vi aveva lasciato Courier:
Il nome di uno scrittore, il titolo di un libro, possono a volte, e per alcuni, suonare come quello di una patria: e così accadde al giudice sentendo quello di Courier, sul cui volume delle opere complete, trovate nel solaio di un parente che non sapeva che farsene, aveva cominciato a compitare francese e ragione, francese e diritto.
Chi tra i giurati fascista non si era mai sentito è l’agricoltore, iscritto al partito per uno scopo preciso: il non vedersi negato il passaporto. Con lui il piccolo giudice, che ha occhiate d’intesa nello svolgersi del processo, avverte un’affinità per il comune sentire umanitario. Da lui forse aveva ricevuto l’anonimo plico contenente la silografia della Madonna, La pia opera delle anime dei corpi decollati che la narrazione descrive dettagliatamente.
Il processo scorre in modo prevedibile. Evidente l’odio inestinguibile dell’imputato nei riguardi delle vittime:
non un’ombra di pentimento, di rimorso: soltanto, continua a dire, inconsulti i suoi micidiali atti. Insinua sospetti, muove calunnie e nella sua follia crede di aver vendicato i torti subiti.
Infine, la camera di consiglio: dopo un lungo dibattito, la Corte esce con una sentenza che non era di morte.
Dieci giorni dopo il piccolo giudice decide di andare a fare una visita all’agricoltore nella sua antica villa alle porte della città. Dopo aver vissuto insieme la drammatica esperienza del processo, di cui risentimenti e minacce già si sentono nell’aria, lo sente come un vecchio amico con cui può parlare di tutto (dal fascismo alle donne, dalla guerra civile spagnola alla ricca biblioteca in possesso dell’agricoltore, dai libri agli scrittori). Insieme condividono l’idea di giustizia e la condanna alla pena capitale. Al momento del saluto, la conversazione si fa accorata, più confidenziale:
“L’ho ammirata molto, in camera di consiglio: lei è riuscito a porre il problema della pena di morte, nei suoi termini più angosciosi, senza mai riferirvisi direttamente”.
“Anche lei: e sono convinto che senza il suo intervento l’esito della votazione...”
“Non ho fatto che seguire la sua linea. Ma voglio dirle, anche se lei l’ha già capito, che io sono venuto a far parte della giuria proprio per questo: un gesto contro la pena di morte”
[...]
“Le dirò che anch’io potevo sottrarmi a quel processo, mi è stato anzi autorevolmente consigliato. Ma l’ho visto come il punto d’onore della mia vita, dell’onore di vivere”
“E ce l’abbiamo fatta… Ma come andrà a finire?”
“Male” disse il giudice.
Nel colloquio cordialissimo con il procuratore si mostra consapevole della decisione processuale assunta. Discutono anche di problemi esistenziali “in quella stanza gelida”: del senso della vita e della coscienza. Parlano di quello che accadrà in Cassazione a seguito del ricorso presentato dal noto avvocato Ungaro. Poi, la domanda cruciale:
In conclusione: ci sarà la sentenza di morte, l’imputato sarà fucilato… E allora: la sua sentenza a che cosa sarà valsa se non a prolungare l’agonia?
Il giudice tra l’altro risponde:
È vero che in me la difesa del principio ha contato più della vita di quell’uomo. Ma è un problema non un alibi. Io ho salvato la mia anima, i giurati hanno salvato la loro: il che può anche apparire molto comodo. Ma pensi se avvenisse, in concatenazione, che ogni giudice badasse a salvare la propria.
Una “fantasia” è la rappresentazione del mondo che egli fornisce al procuratore, pur con una dose di paura:
Ma mi conforta questa fantasia: che se tutto questo, il mondo, la vita, noi stessi, altro non è, come è stato detto, che il sogno di qualcuno, questo dettaglio infinitesimo del suo sogno, questo caso di cui stiamo a discutere, l’agonia del condannato, la mia, la sua, può anche servire ad avvertirlo che sta sognando male, che si volti su un altro fianco, che cerchi di aver sogni migliori. E che almeno faccia sogni senza la pena di morte.
La fantasia non gli cancella né la paura né l’angoscia derivante dalla tragicità del giudicare. C’è in lui la malinconia, la consapevole ostinazione di resistenza al Potere e anche il senso della sconfitta imminente: un’angoscia che
finisce per toccare le ragioni stesse dell’esistere.
Recensione del libro
Porte aperte
di Leonardo Sciascia
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Porte aperte”, l’antiromanzo filosofico di Leonardo Sciascia: trama e significato
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